www.dialogonelbuio.genova.it
Un'esperienza straordinaria
Dialogo nel Buio è una mostra percorso sensoriale dove i visitatori compiono un “viaggio” in totale assenza di luce che trasforma luoghi e gesti familiari in un’esperienza straordinaria.
A piccoli gruppi si è accompagnati da guide non vedenti attraverso ambienti nell’oscurità che, in completa sicurezza, riproducono situazioni reali di vita quotidiana nelle quali occorre imparare “un altro vedere”: non si usano gli occhi ma i sensi del tatto, dell’udito, dell’olfatto e del gusto. Un percorso fuori dal comune dove non c’è niente da vedere, ma molto da imparare. E da capire.
Idee e percezioni non visive che appartengono alla cultura dei ciechi diventano il punto di partenza per scoprire l’invisibile intorno a noi.
Dialogo nel Buio non è una simulazione della cecità, ma l’invito a sperimentare come la percezione della realtà e la comunicazione possano essere molto più profonde e intense in assenza della luce.
Dialogo nel Buio è un invito a scoprire questa nuova dimensione multisensoriale che diventa dialogo interiore e scambio di esperienze diverse sulla percezione del mondo.
Dialogo nel Buio si rivolge a chiunque sia interessato a riscoprire il valore dei propri sensi. Il buio diventa un prezioso momento di crescita.
Un progetto internazionale
Dialogo nel Buio fa parte del progetto internazionale Dialogue in the dark (www.dialogue-in-the-dark.com)
Dialogo nel buio a Genova
PROMOTORE
Il David Chiossone onlus, fondato a Genova nel 1868 quale Istituto dei Ciechi, è oggi centro di eccellenza a livello nazionale per l'handicap visivo, in tutte le fasce di età. La tutela della vista come bene prezioso è il cuore della sua attività che svolge attraverso assistenza, prevenzione, riabilitazione e ricerca scientifica.
Da oltre 140 anni opera affinché le persone cieche o ipovedenti, ed oggi anche pluridisabili, possano vivere una vita integrata nella società attraverso la conquista di sicurezza e autonomia.
Accanto all'impegno nell'erogazione di servizi all'avanguardia, opera per abbattere la barriera del pregiudizio che rende difficile l'integrazione delle persone disabili.
PARTNER DI PROGETTO
Nell'ambito delle proprie iniziative di Corporate Social Responsibility e nell'ottica di un'accurata selezione dei progetti maggiormente idonei a concretizzare la volontà del Gruppo di contribuire allo sviluppo sociale e culturale del territorio, ERG è partner di progetto di "Dialogo nel Buio".
La nostra speranza è che non solo le scuole, ma anche la popolazione più allargata si avvicini a questa preziosa esperienza culturale che sarà presente nella nostra città per un lungo periodo.
Il progetto, sin dalle sue prime fasi di ideazione, ha visto la stretta collaborazione dell'Istituto Chiossone sia con ERG che con le Istituzioni locali: un esempio importante di sinergia e coordinamento tra più attori che, a vario titolo e secondo le proprie specifiche competenze, contribuiscono alla realizzazione di un obiettivo comune per la valorizzazione delle risorse del territorio.
Edoardo Garrone
Presidente ERG
In collaborazione con
COSTA EDUTAIMENT
“Il coinvolgimento di Costa Edutainment nella gestione di Dialogo nel Buio, oltre a rappresentare un ulteriore passo nella valorizzazione e promozione del patrimonio, delle iniziative e delle reti culturali del territorio genovese, operando in sinergia con soggetti pubblici e privati, risponde al nostro impegno di proporre al pubblico esperienze ad alto valore aggiunto, contraddistinti da una forte azione divulgativa. Proprio in quest’ottica abbiamo sposato la filosofia di Dialogo nel Buio che rappresenta un’opportunità per sperimentare un nuovo modo di “vedere”, usando non la vista ma gli altri sensi. Un’occasione d’incontro e di scoperta con un mondo difficilmente comprensibile”.
Giuseppe Costa
Presidente Costa Edutainment
Il gruppo Costa Edutainment, leader in Italia nella gestione di strutture pubbliche e private dedicate ad attività ricreative, culturali, didattiche, di studio e di ricerca scientifica, gestisce a Genova diverse strutture, tutte riunite nel network AcquarioVillage, un mondo che propone esperienze trasversali in maniera unica, coinvolgente e focalizzata sull’emozione di imparare divertendosi.
SOLIDARIETÀ E LAVORO:
“Solidarietà e Lavoro s.c.s. è una cooperativa sociale di tipo B, che ha come mission l’integrazione lavorativa di persone svantaggiate. L'obiettivo è trasformare lo svantaggio in vantaggio, attraverso la capacità di valorizzare nel lavoro le competenze individuali. L’assoluta coerenza fra la mission di Solidarietà e Lavoro e il messaggio che “Dialogo nel Buio” porta con sé, ha determinato la scelta di impegnarsi a gestirne la mostra, confermando la possibilità di coniugare esigenze d’impresa e finalità sociali.”
ragazze amanti della lettura leggono un libro ogni due mesi e poi ne parlano insieme. Il gruppo è chiuso, le serate sono solo per le iscritte al Club
venerdì 12 dicembre 2014
giovedì 27 novembre 2014
mercoledì 26 novembre 2014
prossimo incontro 20 gennaio 2015
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Blindness - Cecità
Blindness (2008) Fernando Meirelles..png
Julianne Moore nel trailer del film.
Titolo originale Blindness
Paese di produzione Canada, Brasile, Giappone
Anno 2008
Durata 121 min
Colore colore
Audio sonoro
Rapporto 1,85:1
Genere drammatico
Regia Fernando Meirelles
Soggetto José Saramago (romanzo)
Sceneggiatura Don McKellar
Produttore Niv Fichman, Andrea Barata Ribeiro, Sonoko Sakai
Fotografia César Charlone
Montaggio Daniel Rezende
Musiche Marco Antonio Guimarães
Scenografia Matthew Davies, Tulé Peak
Costumi Renée April
Interpreti e personaggi
Julianne Moore: moglie del medico
Mark Ruffalo: medico
Gael Garcia Bernal: barista/re della corsia 3
Danny Glover: uomo con la benda sull'occhio
Alice Braga: donna con gli occhiali scuri
Yûsuke Iseya: primo cieco
Don McKellar: il ladro
Sandra Oh: Ministro della Salute
Doppiatori italiani
Roberta Greganti: moglie del medico
Fabio Boccanera: medico
Emiliano Coltorti: barista/re della corsia 3
Angelo Nicotra: uomo con la benda sull'occhio
Domitilla D'Amico: donna con gli occhiali scuri
Massimo Lodolo: il ladro
Sabrina Duranti: Ministro della salute
Blindness - Cecità (Blindness) è un film del 2008 diretto da Fernando Meirelles.
Il soggetto è tratto dal romanzo del 1995 Cecità di José Saramago. Blindness debuttò come film d'apertura al Festival di Cannes del 2008 e uscì poi nelle sale negli Stati Uniti nell'ottobre dello stesso anno.
Indice
1 Trama
2 Produzione
3 Distribuzione
4 Note
5 Altri progetti
6 Collegamenti esterni
Trama
Un uomo, mentre è fermo a un semaforo alla guida della sua automobile, diventa improvvisamente cieco. Bloccatosi, crea un ingorgo e attira l'attenzione di numerosi passanti. Uno di questi si offre di aiutarlo guidandogli la sua macchina fino a casa. Il gesto, apparentemente generoso, si scoprirà essere la premessa per il furto della stessa auto. La cecità ha colpito quell'uomo in maniera improvvisa e istantanea e ha la caratteristica di presentarsi non come un'assenza di luce ma al contrario proprio come un chiarore uniforme e perenne.
Tornata la moglie, l'uomo viene accompagnato subito da un oculista che non trova spiegazioni all'accaduto e lo rimanda a un consulto il giorno seguente. A casa, l'oculista è come sconvolto e dopo una notte quasi insonne, alla mattina annuncia alla moglie di essere diventato anche lui cieco. La moglie non raccoglie i consigli del marito di allontanarsi, datosi il sospetto del carattere contagioso di questa strana cecità, e quando il marito viene prelevato a casa con le premure riservate a chi non deve essere avvicinato senza precauzioni, lei lo segue e per potergli stare vicino si finge cieca.
La cecità sta effettivamente dilagando e le autorità hanno deciso di isolare i contagiati in strutture sicure. Il medico e la moglie sono così i primi ospiti di un ex ospedale che via via dovrà accogliere solo ed esclusivamente gli affetti da questa inspiegabile malattia. I degenti dovranno autogestirsi e l'unico contatto con l'esterno risulterà la consegna dei pasti, mentre per chi solo si avvicinerà alle uscite è stato dato ordine ai militari di guardia di sparare.
Nella prima corsia occupata si ritrovano molti dei pazienti che il medico ha avuto nel suo ultimo giorno di visite, e inoltre anche il ladro che ha rubato l'auto al primo cieco. Quest'ultimo, per aver allungato troppo le mani, viene ferito dal tacco a spillo di una ragazza che continua a indossare gli occhiali scuri prescritti per curare la congiuntivite di cui soffriva prima di diventare cieca. Le condizioni igieniche del posto finiranno per condannare l'uomo ferito, nonostante gli sforzi del medico e di sua moglie. Quest'ultima, senza aver mai palesato il suo stato di vedente, si sobbarca un lavoro immane cercando di mantenere un minimo di decenza per sé, per suo marito e per i suoi compagni di sventura. Con il passare del tempo l'impresa diventa quasi impossibile. Gli ospiti della struttura aumentano a dismisura e la sporcizia e il caos hanno il sopravvento. Il cibo è sempre meno e gli occupanti di una camerata si organizzano assumendosi l'incarico di ritirarlo e distribuirlo/razionarlo loro. Dapprima fanno razzia di ogni prezioso, poi non avendo più nulla da depredare, decidono di consegnare il cibo solo a quelle corsie che avranno offerto le proprio donne al loro piacere. Dopo alcune resistenze di ordine morale, la fame ha il sopravvento e, per il bene di tutti, anche nella corsia del medico, parte delle donne si offrono al turpe scambio. Tra queste sua moglie, la moglie del primo cieco e la ragazza dagli occhiali scuri. Nell'incontro/stupro una donna particolarmente debole resta uccisa e la moglie del medico medita vendetta. Così durante un successivo "incontro" con le donne di un'altra corsia, la moglie del medico, armata di forbici, uccide il capo della cricca di malavitosi stroncando l'insopportabile baratto ma innesca una possibile e pericolosa escalation di violenza. Quando un'altra donna appicca un incendio proprio nella camerata degli aguzzini, sterminandoli, tutto l'edificio va a fuoco. Costretti a fuggire i ciechi scoprono che i cancelli sono aperti e le guardie non ci sono più. Sono tutti diventati ciechi e l'intera città, e forse il mondo intero, sono in preda alla totale anarchia.
La moglie del medico è presumibilmente l'unica vedente rimasta, e lo spettacolo che può ammirare non è invidiabile. Sporcizia e abbandono, morte e sciacallaggio di ogni tipo; l'umanità, persa la vista, sembra essere regredita a uno stato selvaggio. Non c'è elettricità, acqua corrente, niente di niente, solo caos. I ciechi si spostano in piccoli gruppi a caccia di quel poco cibo che ancora si può scovare in negozi o case abbandonate. Un piccolo gruppetto di sette ciechi, usciti dall'isolamento, si avventura nella città sotto la guida della moglie del medico. Dopo aver audacemente trovato da mangiare e aver passato la prima notte in un negozio, i sette si dirigono a casa del medico. Questa è restata fortunatamente com'era, e così, anche grazie a un'abbondante pioggia che regala l'acqua necessaria per pulirsi, i sette possono finalmente darsi una sistemata e fare anche una cena "quasi normale", concedendosi persino un brindisi con una bottiglia di "preziosissima" acqua frizzante.
Il mattino seguente, improvvisamente, così come l'aveva persa, il primo cieco riacquista la vista. La speranza che l'incubo della cecità sia finito fa esplodere di gioia tutti quanti.
La moglie del medico guarda fuori, alza gli occhi al cielo e vede tutto bianco. Li abbassa e vede la città. Lei ha sempre visto e continua a vedere.
Produzione
Riprese a San Paolo nel Brasile
I diritti per il romanzo di Saramago dal quale è tratto questo film, sono stati ottenuti dopo non pochi sforzi[1] . L'autore era restio a concederli temendo che i temi trattati, contenendo anche violenza, stupri e brutalità, potessero finire "nelle mani sbagliate". Nel 1999 furono il produttore canadese Niv Fichman e lo sceneggiatore Don McKellar a vincere le resistenze dello scrittore portoghese che pose precise condizioni riguardo al fatto che non si sarebbe dovuto specificare in quale paese si svolgesse la vicenda[2], e che il "cane delle lacrime", personaggio minore della seconda parte della storia, dovesse essere un cane grande.[3].
Il brasiliano Meirelles, che da tempo aveva in mente di portare sullo schermo questo romanzo, al quale fu affidata la regia, fu così libero di ambientarla al presente. Nel romanzo è imprecisata anche la collocazione temporale anche se verosimilmente è collocabile tra gli anni '60 e '90 al massimo. Quanto al set per gli esterni si optò su San Paolo per il fatto che al pubblico statunitense, così come quello europeo, risulta essere una metropoli poco conosciuta, dunque difficilmente individuabile. Alcune scene sono poi state girate anche a Montevideo e a Guelph nell'Ontario, oltre che nella città di Osasco che fa parte dell'area metropolitana di San Paolo.
Distribuzione
Blindness è stato presentato a Cannes come primo film in concorso il 14 maggio 2008. Nel corso della successiva estate vi sono state altre premiere in vari Paesi del mondo e in altri due festival: il Toronto Film Festival e l'Atlantic Film Festival di Halifax. Il 3 ottobre 2008 è uscito nelle sale degli Stati Uniti e nelle settimane e mesi seguenti in tutto il resto del mondo. In Italia il film è stato distribuito direttamente in Blu-Ray-DVD il 1º giugno 2011.[4]
Note
^ Reed Johnson, Eyes wide open to a grim vision in Los Angeles Times, 27 gennaio 2008.
^ Martin Knelman, Even non-TIFF movies got deals in Toronto Star, 17 settembre 2007.
^ Cannes Q&A: Fernando Meirelles (abstract) in The Hollywood Reporter, maggio 2008. URL consultato il 20-05-2008 (archiviato dall'url originale il 2008-05-18).
^ Il Blu-Ray di Blindness - Cecità
proposte del 25 novembre "and the winner is.... Cecità"
Clarice Lispector "vicino al cuore selvaggio"
Grossman "col corpo capisco"
Fuga "lo zaino di Emma"
Marcelo Figueras "kamchatka"
Anilda Ibrahimi "rosso come una sposa"
JC Izzo "il sole dei morenti"
kawakami "la cartella del professore"
a. chiamamanda "metà di un sole giallo"
Faulkner "l'urlo e il furore"
Saramago "cecità"
martedì 25 novembre 2014
25 novembre: giornata contro la violenza sulle donne
Per un italiano su tre, la violenza domestica sulle donne è un fatto privato da risolvere dentro le mura domestiche, per uno su quattro se una donna resta con il marito che la picchia diventa corresponsabile della violenza.
Sono alcuni dei dati desolanti che emergono dalla ricerca Rosa Shocking. Violenza, stereotipi... e altre questioni del genere, realizzata da Intervita con il supporto di Ipsos. Ed è certo uno shock scoprire che ancora il 32% degli intervistati si dichiara d'accordo o "neutro" di fronte a una affermazione come "se un uomo viene tradito è normale che si arrabbi al punto da diventare violento". Percentuali di accordo/neutralità simili si leggono per le affermazioni secondo cui gli uomini diventano violenti per il troppo amore, o secondo cui per evitare di subire violenza le donne non dovrebbero indossare abiti provocanti.
Stereotipi triti, luoghi comuni secolari che sembrano duri a morire, di cui evidentemente non è possibile sbarazzarsi con qualche immagine di donna dal volto tumefatto e con gli slogan – tutti uguali – che dicono no alla violenza sulle donne in occasione della Giornata mondiale del 25 novembre. Ma non deve sorprendere più di tanto. Perché la radice del problema sta nella serie di risposte che riguardano il matrimonio (“il sogno di tutte le donne” per circa un uomo su due), la famiglia (per sette intervistati su dieci è più facile per una donna che per un uomo fare dei sacrifici), la casa e i figli (un intervistato su tre ritiene che la maternità sia l’unica realizzazione per le donne).
Quando si dice che la violenza è un fenomeno culturale si intende proprio questo: il sostrato che la alimenta è fatto di rappresentazioni della disponibilità femminile: affettiva, materiale, sessuale. Disponibile è qualcuno o qualcosa di cui ci si può servire, in vari modi. Ed è così che sono troppo spesso rappresentati e interpretati in Italia i ruoli femminili di moglie, amante, madre. Complici anche le politiche governative, quando per esempio premiano con 80 euro le mamme in quanto mamme, senza una visione che riguardi i nuovi ruoli che possono svolgere i padri nelle famiglie, o il rapporto con il mondo del lavoro e il sistema dei servizi.
Se non si coglie questo nodo profondo tra violenza e vita quotidiana, moltiplicare ogni anno gli eventi del mese di novembre contro il femminicidio non serve a granché. Se la violenza sulle donne si riduce alla conta delle uccise, alle immagini di occhi neri e corpi nudi rannicchiati in un angolo buio, e intanto i progetti e i soldi per l’educazione di genere nelle scuole restano nei cassetti, non fa che rinsaldarsi quell’immagine di donna subalterna e fragile, bisognosa di protezione, che è alla radice dello stesso sistema secolare di diseguaglianze.
- See more at: http://www.pagina99.it/news/commenti/7549/Giornata-mondiale-violenza-donne-25-novembre.html#sthash.ldMXWSpI.dpuf
venerdì 14 novembre 2014
le lune di giove
“Le lune di Giove” di Alice Munro (traduzione di Susanna Basso, ed. Einaudi)
Come spesso accade nella produzione narrativa di Alice Munro, a dare il titolo a tutta la raccolta (ripubblicata da Einaudi nel 2010, comprende racconti appartenenti a momenti diversi della carriera dell’autrice) è uno dei racconti, in particolare l’ultimo, forse il più emblematico, che tocca trasversalmente i temi di tutti gli altri.
Credo che il lettore che si accosti per la prima volta alla narrativa della Munro possa essere colpito innanzitutto da due elementi: il primo riguarda l’orizzonte d’attesa alimentato dal lettore, il quale potrebbe aspettarsi una serie di storie brevi, indipendenti, i cui personaggi vivono il loro percorso narrativo più o meno intenso per poi scomparire e lasciare spazio agli altri. Nell’universo narrativo della scrittrice canadese questo non avviene, poiché i personaggi si riflettono gli uni negli altri come in un gioco di specchi, trasmettendosi a vicenda echi e rinvii incrociati.
L’altro elemento riguarda l’idea che tradizionalmente si può nutrire a proposito della tipologia narrativa del racconto, genere che difficilmente trova adepti nella letteratura italiana contemporanea, tranne poche eccezioni (nel Novecento Tommaso Landolfi e Dino Buzzati, non a caso intrisi di un realismo magico di matrice europea e quanto mai lontani da provincialismi e regionalismi). E qui si aprirebbe un discorso troppo lungo, da destinarsi ad altre occasioni, per chiedersi perché mai la tradizione italiana debba rifuggire da un genere che altrove (dalla letteratura anglosassone a quella tedesca, a quella anglo-americana) trova realizzazioni esemplari. In ogni caso, dal racconto ci si può aspettare l’occasione per una lettura meno impegnativa sul piano spazio-temporale, sia perché l’arco della narrazione solitamente rispetta le unità di spazio tempo e luogo per motivi di respiro narrativo, sia perché un racconto di media lunghezza può esser letto come un episodio autonomo in termini di fruizione contemporanea, purtroppo legata a tempi veloci, a ritmi narrativi rapidissimi (si pensi all’evoluzione che ha subito il tempo narrativo nel linguaggio cinematografico, per non parlare dei tempi contratti e sincopati della pubblicità televisiva).
I racconti della Munro sono complessi e compiuti in se stessi come piccoli universi, come piccoli romanzi. Nel primo racconto, intitolato I Chaddeley e i Fleming e diviso in due parti, Agganci e Il sasso nel pascolo, l’arrivo di quattro cugine a casa della protagonista, ancora bambina, in una località dell’Ontario occidentale, crea l’occasione per la ricostruzione narrativa di un mondo perduto che la protagonista comprende poi solo da adulta, quando con occhi diversi incontra a distanza di tempo una della cugine e la rivede con gli occhi smaliziati e inconsapevolmente crudeli che poteva aver avuto la propria madre anni prima; questo meccanismo di confronto impietoso tra le attese magiche dell’infanzia, con il suo bagaglio proustiano di profumi, sapori e atmosfere che si vorrebbe rivivere, e la realtà adulta, si verifica spesso nei racconti della Munro, e rende la descrizione dei personaggi un’analisi psicologica di volta in volta avvincente ma anche dolorosa. Come se l’occhio della scrittrice oltrepassasse suo malgrado i confini posti dai personaggi, i tentativi esteriori di costruire una personalità spesso nella propria fragilità, i caratteri vengono indagati e raccontati nelle loro piccole manie, nella minuzie quotidiana che li rende irrimediabilmente transeunti e a volte mediocri. Non si tratta mai, però, di una mediocrità morale, bensì dell’insoddisfazione a volte malcelata di non aver raggiunto il proprio sogno, di aver involontariamente tradito nel tempo le proprie aspettative, le fantasie giovanili dell’immaginazione che per anni hanno conferito carne e sangue alla propria esistenza, per poi estinguersi al confronto della realtà adulta, l’arido vero leopardiano.
Tuttavia, un piccolo ma non banale riscatto attende queste protagoniste femminili, sorelle tra di loro, apparentate da uno sguardo coraggioso nel voler indagare la propria verità, un riscatto che, se non può essere considerato mai un risarcimento nei confronti dei loro sogni perduti per la strada (viene in mente la metafora flaubertiana del viandante che dissipa nel proprio cammino i propri sogni), offre però una prospettiva nuova sulla propria vita presente e soprattutto la possibilità di valorizzare ogni singolo momento di essa, mettendosi così ancora nelle condizioni di poterla apprezzare.
lunedì 6 ottobre 2014
martedì 23 settembre 2014
venerdì 12 settembre 2014
lunedì 28 luglio 2014
intervista a Marco Cubeddu
Oggi ho il piacere di presentarvi, carissimi lettori, il nuovo enfant terrible della
letteratura italiana che si è reso disponibile per un'intervista con
TRAMEstio interiore, stiamo parlando di Marco Cubeddu che ha esordito
con il suo primo romanzo C.U.B.A.M.S.C -Con una bomba a mano sul cuore-
(Mondadori) e tutto fa già parlare di lui, ma prima scopriamo qualcosa
di più sul suo conto…
![]() |
Foto di Giulia Ferrando |
È stato definito da molti il nuovo enfant terrible della letteratura italiana, un giovane, di soli 25 anni, su cui tanti scommettono.
Marco Cubeddu è nato a Genova poco prima della caduta del Muro. Dopo il
diploma ha frequentato la Scuola Holden a Torino, mantenendosi facendo
il pompiere.
Sotto vari pseudonimi pubblica regolarmente racconti su "Nuovi Argomenti".
Studia fotografia e arte contemporanea e ultimamente ha iniziato una collaborazione con "Panorama".
Il suo percorso, dice, è più mirato alla realizzazione artistica e
cinematografica che a quella letteraria, anche se ovviamente
quest'ultima non viene disdegnata.
C.U.B.A.M.S.C. è il suo primo romanzo.
Ciao Marco, benvenuto su TRAMEstio interiore,
grazie di aver accettato di fare quest'intervista!
Volevo iniziare chiedendoti il segno zodiacale, l'ascendente e possibilmente il tuo colore preferito…
Dai, sto scherzando!
Le banalità lasciamole ad altri.
Ti lascio campo libero per raccontare, il non raccontabile, ai lettori del blog.
Mah, il raccontabile l'ho già raccontato. E l'irracontabile
contravverrebbe alla sua natura ontologica se venisse raccontato, Però
posso dirti una cosa che può sembrare sgradevole, ma non vorrebbe
esserlo.
Risponderò alle tue domande con un tono non dico non censurato (sarà
censurato eccome) ma molto meno di quanto in genere non stia facendo
nelle altre interviste. E questo perché spero che essendo minore la
visibilità di queste dichiarazioni di quelle, per dire, su Gioia e su
Panorama, passeranno inosservate alle persone della casa editrice.
Dandomi però la possibilità di essere più aderente alle mie convinzioni
che comunque sono molto peggiori di quelle che esprimerò nelle mie
risposte.
Come più volte hai evidenziato nel tuo libro, ti ispiri molto a Nabokov, che è una specie di "maestro" per te.
Famosa è la sua collezione di farfalle e per questo mi chiedevo se tu, pure, collezionassi qualcosa.
Il disordine. Il disordine del desktop dei miei pc (che puntualmente si
rompono offrendomi nuovi spazi da disordinare) il disordine delle mie
stanze da letto, delle cucine, dei bagni di tutte le molte case che ho
abitato. E, come conseguenza, colleziono tutta una serie di feticci,
infantili e non, che collezionano anche le ragazzine adolescenti, come i
biglietti di concerti e del cinema e tutta quella serie infinita di
ciarpame che investo di un significato così sproporzionato. Ma la
coscienza di un atteggiamento patologico con il divenire, la
consapevolezza che si tratti di un tentativo di ordinare quel qualcosa
che è la disgregazione della propria vita, non mi salva dal farlo.
Quindi lo faccio. E casa mia assomiglia allo studio di Francis Bacon. Ci
sono collage, fotografie, vestiti ovunque, pentole dimenticate in cui è
fiorita la muffa, due calendari Pirelli, bottiglie di whisky, Topolini,
libri, un machete, due passaporti, valigie, buste di tabacco, cicche
sparse, resti di angurie delle estati passate, candele, guanti da boxe,
analgesici, periodici, etc., etc.
Alessandro Spera potrebbe essere definito il tuo alter ego: ti sei proiettato in questo romanzo per esorcizzare qualcosa?
Un uomo straordinario, che ho avuto il piacere di avere come insegnante,
che si chiama Luca Rastello, sintetizzò in una frase i concetti su cui
riflettevo da anni: "narrare per non morire".
La scrittura ha indubbiamente un valore terapeutico.
Come l'arte in generale. Sposta, la morte, più in là. E, spostando la
morte più in là, noi viviamo. Quelli di noi che hanno sufficiente
malinconia e sufficiente megalomania, tentano di creare le cose belle,
sempre inutili, che chiamiamo opere d'arte.
L'alter ego è un problema dei critici, non degli artisti. Gli artisti,
come le loro creazioni, sono sempre altro. Non sono che emanazioni di
uno sguardo particolare, fragilissimo, nello spazio e nel tempo, di un
infinito morire.
Il tuo cognome mi fa pensare alla Sardegna che più volte emerge dalle pagine di C.U.B.A.M.S.C.
C'è qualcosa in particolare che ti lega a questa terra meravigliosa?
Mio padre e alcuni fra i miei parenti più cari vivono a Ploaghe, in
provincia di Sassari, paese natale della nonna materna di Italo Calvino,
Maddalena Cubeddu;
che, come mi hanno detto recentemente (con una surreale telefonata di
una ricercatrice messicana) dovrebbe essere una mia antenata.
Ho passato molte estati e festività in Sardegna, ma io sono nato a
Genova dove attualmente sono tornato (provvisoriamente) a vivere. E sono
senza dubbio più genovese che sardo.
Ho notato, da appassionata, molti riferimenti alchemici ed occulti, un caso o intenzione?
Messa in questi termini assolutamente un caso. Che sto scoprendo con
questa domanda. Se, con riferimenti alchemici ed occulti, intendi i
personaggi letterari, le citazioni di film e libri, e serie tv e canzoni
pop, allora la risposta è senza dubbio intenzionalmente ma se intendi,
come credo, letteralmente alchemici e occulti, ti giro volentieri la
domanda e ti chiedo quali riferimenti ci hai visto?
Che razza di demoni ho evocato?
Ho costruito senza saperlo uno di quei libri che nei film horror viene
letto da uno scettico nerd e che poi scatena su tutto il gruppetto di
isolati bambocci terribili forze oscure?
Guardando le tue foto ho trovato una chiara corrispondenza tra i tuoi tatuaggi e quelli del tuo protagonista.
Sulla tua pelle sono apparsi prima o dopo la stesura del romanzo?
Puoi spiegarci il significato di alcuni di essi?
Io e Alessandro Spera abbiamo condiviso alcune esperienze. Di alcune si è
parlato. Di altre non parlerò direttamente mai anche se credo ne
scriverò ancora.
I tatuaggi sono nati alcuni prima addosso a me e alcuni prima addosso a
lui, altri contemporaneamente, in tempo reale. I miei tatuaggi sembrano
quelli di un galeotto messicano. Ero convinto di avere ancora l'aspetto
efebico di quando avevo 17 anni. Ho scoperto di sembrare un galeotto
dopo aver visto alcuni ritratti senza vestiti che mi aveva fatto
un'amica. Nonostante questo, ogni tatuaggio, per quanto tamarro, ha
per me un significato molto profondo. Si tratta, dal mio punto di
vista, non solo di un'estetizzazione di concetti che fanno parte delle
mie ossessioni, ma anche, e soprattutto, di un memorandum. Una sorta di
memento mori. Un modo per non dimenticarmi non tanto chi sono, quanto
chi ho scelto di essere. Il concetto che lega tutti i tatuaggi è il
rapporto con l'eternità. O meglio, con la percezione dell'eternità, che
noi, esseri finiti, abbiamo.
Il nastro di Möbius, con carri armati e ruspe che lo compongono,
oltre a essere la trasposizione di un lavoro di un artista che ho
scoperto a Praga, è quel concetto del divenire, come parte di un
prodotto di creazione e distruzione che ha sintetizzato Herzog durante
una chiacchierata che ho avuto il privilegio di avere con lui, a Torino.
Disse: "quando guardo il cielo, vedo la violenza dell'universo". Ecco,
la violenza, in questo senso, e solo in questo senso, mi sembra uno
strumento eccezionale per la bellezza.
Bill, è un monito, di nuovo, relativo all'identità. O per essere ancora più precisi, alla diventità.
It's so cold in Alaska, di nuovo, è qualcosa che esprime un senso
di così profonda malinconia e solitudine, che mi fa pensare a Gorgia e
alle sue riflessioni sull'inconoscibilità e sull'incomunicabilità del
reale. Poi che altro, le Colt, col punto del morto, prendono spunto da una poesia di Michele Mari, nella sua raccolta Cento poesie d'amore a Ladyhawke, per
me un punto di arrivo straordinario della poesia contemporanea. Parla
di Wild Bill Hickok, il dandy del West, freddato con una doppia coppia
di assi e otto in mano, e una carta nascosta in cui ho scelto di vedere
una donna di cuori. Straordinariamente pop, straordinariamente pulp,
straordinariamente letterario, eroico, piatto, fallimentare, come tutti
gli eroi letterari, sento quel cowboy molto vicino.
We last si spiega da sè. E poi, naturalmente, c'è la bomba a mano sul cuore.
Se dovessi suicidarmi, cosa che non ho intenzione di fare, ma alla
quale, come tutti, ho pensato, lo farei lasciandomi esplodere una bomba a
mano proprio sul cuore, andandomene in un violento scoppio di gioia.
Dato che in tutto il libro riecheggiano film e musiche degli anni Ottanta, ti chiedo, vedresti C.U.B.A.M.S.C sul grande schermo?
Se sì,
accompagnato da quale colonna sonora, interpretato da quale attore, ma
soprattutto girato da chi (megalomanie a parte, io lascerei stare
Tarantino)?
No, Tarantino, megalomanie a parte, non sarebbe l'autore giusto. Certo,
lo vedo, e credo che il potenziale cinematografico del libro potrebbe
sfuggire solo per la miopia e la trita mediocrità dei cineasti italiani,
fatto salvo, naturalmente, Sorrentino, per cui nutro una stima
assoluta, nonostante sia napoletano. Altri autori, sicuramente, hanno
numeri e capacità. Ma la loro visione, per quanto ho potuto vedere, è
così tristemente legata alle logiche sociali e melò che probabilmente ne
verrebbe fuori un'amalgama di controversie esistenziali del
protagonista e dei suoi vicari, prodotto con un budget ridicolo,
tecnicamente irrilevante.
A livello internazionale vedo il film fatto dai Cohen, forse, o da Paul
Thomas Anderson (tenuto a freno) o da Mc Queen commissariato e senza
possibilità di intervenire sulla sceneggiatura.
Altrimenti potrei girarlo io, che sarebbe la soluzione migliore, anche
se in questi tempi di crisi, trovare un produttore così lungimirante da
investire milioni in un'opera prima di un regista esordiente, mi sembra
complicato.
In realtà mi ero dimenticato di Guadagnino, tra gli italiani. E ce ne
sono molti altri all'estero che potrebbero fare un buon lavoro (anche se
non Herzog, non Von Trier e non Lynch).
Attori e colonna sonora? Sai che è una domanda difficile? Perché non
riesco a rispondere a caso e dovrei effettivamente pensare a chi far
fare Alessandro Spera e, soprattutto, a chi far fare Mel. Se solo Spera
fosse biondo direi DiCaprio, e lei proprio non lo so. Colonna sonora,
dipende dal tipo di film, io ci vedrei molta elettronica.
No, il film italiano che si potrebbe fare e che, con qualche paletto,
potrebbero fare un po' di bravi registi italiani e soprattutto
Sorrentino, che sarebbe perfetto, è Pornokiller, il best seller di
Alessandro Spera girato nel libro proprio da Sorrentino. Tra l'altro,
non solo Pornokiller esiste come libro di genere, ma esiste ovviamente
anche la sceneggiatura. Si tratta di un film molto facile, molto
italiano e molto spendibile all'estero.
Nel romanzo Spera
viaggia molto alla ricerca della sua Mel, tu, quale di quei posti hai
visitato di persona e quale, fra tutti, ti è rimasto più impresso?
Marsiglia, è una delle mie città preferite. Anche Istambul. Chiunque
abbia vissuto a Londra sa che è il miglior posto in cui vivere, a meno
che non ci si voglia trasferire a Berlino che è come Londra ma molto più
economica. In generale, in tutti questi posti e in altri, specie negli
Stati Uniti, mi sono sentito molto più a casa che nello squallido,
provinciale, miserabile giardinetto italiano. Non capirò mai fino in
fondo per quale ragione, tutta la piccola folla di buffoni che dicono
che se vince ancora Berlusconi lasciano il paese, non se ne vadano. A
parte, naturalmente, la loro totale cialtroneria e il loro endemico
provincialismo, che li rende degli odiosi hipster e degli insopportabili
radical chic. Il vero nemico dell'arte e della bellezza sono i
progressisti.
Non amo strozzare
gli artisti con etichette preconfezionate, però mi incuriosisce sapere
con quale genere letterario ti senti più a tuo agio.
Ma soprattutto quale ti senti di rappresentare.
Non saprei. Non penso esistano artisti, nel senso compiuto del termine,
che siano accomunabili ad altri. Esistono bravi mestieranti, artigiani,
ma non artisti, integrati. Certo, dovessi dirti dalla parte di chi
voglio stare, in Italia ad esempio, ti direi Piperno, o Mari (o Calvino,
fra i morti). Ma non mi lega molto a loro se non l'influenza di alcuni
maestri e un'idea, direi onorevole, di artista non impegnato in sciocche
militanze da quartierino. Le scuole, i periodi, i circoli letterari
sono quanto di più sciocco la mente dei critici sappia vedere in un
artista. E quanto di più volgare, un pubblico non educato riesca a
concepire.
Toglimi l'ultimissima curiosità.
Ma perché,
perché un libro rosa?
Questo dovresti chiederlo a chi ha concepito il packaging del libro, che
si presenta in un formato che lo rende enorme e che viene moltiplicato
dalla scelta (orrenda) del colore e del primo piano in copertina.
Purtroppo viviamo in un mondo in cui scarseggiano gli artisti e
abbondano i grafici. Che sono, più di qualunque figura paraartistica, il
nemico.
No, il fatto è che la formalizzazione finale dell'oggetto libro non può e
non deve dipendere solo dall'autore. " A meno che l'autore non sia io"
penso, erroneamente, alle volte. Ma scherzi a parte è davvero qualcosa
di complesso in cui tante figure, in tanti momenti e modi diversi
cercano di lavorare bene al risultato finale. Onestamente, potrei
produrre molta mail in cui mi abbandono a un'ira smisurata si questa
cosa dei primi piani e del colore.
Poi però mi è stata spedita la prima copia a casa, con un biglietto di
Antonio Franchini e di tutti gli altri meravigliosi editor (molti,
donne) della narrativa italiana. E così ho potuto inviare una mail
collettiva con scritto: "È grosso. È duro. È rosa. E ce l'ho in mano".
Grazie infinite per la disponibilità e la simpatia.
Ancora mille compimenti per il tuo lavoro e un in bocca al lupo per i tuoi futuri, spero prossimi, successi.
Ciao Marco!
Per chi volesse approfondire, ecco i link riguardanti C.U.B.A.M.S.C.
giovedì 17 luglio 2014
intervista a tom robbins
Tom
Robbins non passa inosservato. Innanzitutto è alto, ha un'andatura
lenta, meditabonda, che ricorda il suo modo di parlare. Sorride spesso e
cortesemente si preoccupa che le sue opinioni, pronunciate in uno
stretto americano, vengano appieno comprese. Alle dita ha otto anelli
molto appariscenti "perché 23 non posso metterli", e dalle sue risposte capiremo l'arcano...
Lei usa Internet?
Lei usa Internet?
Non molto. Con mio figlio, che vive a Praga, nella repubblica Ceca, utilizziamo spesso le e-mail per comunicare. Non navigo in Internet.Il tema del viaggio ricorre nelle sue opere. Ma è un viaggio reale o immaginario?
Conosciamo così poco della realtà. Il 95% di tutto ciò che accade nell'universo è troppo veloce o troppo lento, troppo grande o troppo piccolo per essere percepito dai sensi umani... In definitiva può essere considerato un viaggio reale involontariamente immaginario.Il viaggio in Internet per i giovani è paragonabile a quello "on the road" degli anni Sessanta o Settanta?
Il viaggio su strada e il viaggio su strada elettronico?Sì, esattamente.
I giovani così non consumano le scarpe, non si stancano le gambe... La domanda mi interessa molto, ma è per me un tema da sviluppare, su cui dovrei riflettere. Potrebbe essere un argomento per un prossimo romanzo. Nello scrivere un romanzo parto sempre da un titolo, poi giro la pagina e scrivo la prima frase...Quali differenze vede tra la generazione di giovani attuale e la "beat generation"?
Sono molto più informati. Ho un figlio di 25 anni. Sa molto di più di quello che sapevo io alla sua età; i giovani adesso sono molto più preparati. Penso che la principale differenza stia proprio nella preparazione e nella conseguente capacità critica. Il mondo è diventato cosmopolita e i giovani sono molto meno 'naive' di quanto lo fossi io.Di conseguenza, pensa che ci siano parti dei suoi romanzi scritti allora, che i giovani adesso non riescono più ad afferrare appieno?
Non credo. Ci sono giovani con grande apertura mentale, ma anche persone più anziane dotate di apertura mentale particolare. Non si tratta secondo me di una differenza generazionale, ma di capacità di afferrare i concetti. Persone che non abbiano una rigidezza di pensiero, con immaginazione, dotate di 'sense of humor' sono quelle che amano i miei libri e li capiscono, al di là dell'età.I suoi personaggi, quale parte della società rappresentano?
Le persone eroiche, o particolarmente importanti. I "grandissimi" [in italiano nell'intervista n.d.r.]. Mai persone ordinarie o vite ordinarie, figure straordinarie. Ma queste persone non sono necessariamente immaginarie. Ci sono nella vita persone straordinarie.E quale parte ha il paradosso in questi personaggi?
Per tutti quelli che hanno studiato la vita, è ovvio che esista il paradosso. Nei paesi orientali dell'Asia non si dubita di ciò. In America non è invece accettato e tutti sono un po' spaventati all'idea che la vita in sé contenga un paradosso. Quando scrivo un passaggio particolarmente serio, alla fine cerco sempre di mettere una parte umoristica, una parte divertente o di sottolinearne l'aspetto "cattivo", o straordinario e di inserire sempre un paradosso finale. Come qualcuno che tiri improvvisamente un tappeto da sotto i piedi, io tolgo le certezze acquisite e lascio la storia "in aria". Cerco sempre di parlare al mio lettore e quando questo è arrivato quasi al "torpore" cerco di dargli uno scossone.Quanto si identifica con il suoi personaggi?
Non c'è mai un personaggio in cui identificarmi. Anche il dottor Robbins de "Il nuovo sesso: cowgirls" aveva il mio nome ma non ero io. Voglio evitare tutto quello che può essere autobiografico, non voglio riprodurre me stesso. È però vero che in tutti i personaggi c'è qualcosa di me, anche in quelli femminili. Quando ho pensato ad Amanda, il personaggio che c'è in "Uno zoo lungo la strada", cercavo di affrontare la parte femminile che c'è in me. I personaggi non sono neanche basati sui miei amici o conoscenti, sono semplicemente una combinazione di vari fattori. Non so perché molti autori vogliano scrivere della loro vita, anche perché spesso non hanno vite molto interessanti... Per scrivere i miei libri impiego molto tempo, perché voglio pensare al ritmo della frase... Talvolta impiego anche due anni, tre anni. Essendo chiuso in una stanza per due o tre anni con i miei personaggi voglio almeno che questi siano interessanti: ad esempio donne indipendenti, forti, dinamiche e mai veri e propri "cattivi". Voglio proprio evitare di stare chiuso tanto tempo in una stanza con personaggi antipatici...Parliamo invece dell'umorismo e della satira e del ruolo che svolgono nei suoi romanzi.
Non uso molto la satira. Distinguo un umorismo "importante" da quello che non lo è. Esiste un umorismo fine a se stesso e un umorismo che serve. Perciò non uso molto la satira, bensì l'umorismo perché secondo me questo può rendere la commedia, la trama inappropriata, blasfema, può rendere il testo maleducato e perciò serve ai miei fini. Non mi serve invece la satira perché la satira è, appunto, fine a se stessa. Posso fare una satira del governo, ad esempio, ma alla fine il dito sarà puntato sul governo, invece io voglio che la cosa più importante sia il testo. L'umorismo è "autonomo", la satira non mi permette di arrivare ai miei fini, di concentrarmi sulle parole, sul testo, sulla dinamica del testo. Il mio umorismo è anche particolare e se un lettore non è particolarmente attento o "portato" verso questo tipo di umorismo non sa mai quando sto scherzando o quando invece non scherzo. Può essere anche irritante, però se una persona ha la capacità di "andare a fondo" riuscirà a capire benissimo quando mi prendo gioco di una cosa e quale è il mio scopo.Come spiega il successo, l'interesse che, a distanza di 25 anni, ancora suscita il suo romanzo "Another Roadside Attraction" (Uno zoo lungo la strada)?
Non ho idea. Credo perché il valore sia ancora gran parte delle conoscenze umane. Sento che ovunque io vada c'è un grande desiderio nella gente di qualcosa di rituale, qualcosa di cerimoniale, di più profondo della vita quotidiana, una ricerca del mistero, del "grande mistero". Penso che la gente ne abbia un gran bisogno e lo ricerchi ancora nei libri. Venticinque anni non hanno cambiato la situazione.Cosa pensa delle recensioni?
Abitualmente non leggo le recensioni, da molti anni ormai. In una recensione del New York Times un critico affermava: 'Tom Robbins dovrebbe capire se vuol essere serio o vuol essere divertente. Perché non si decide?' A questo io rispondo che lo deciderò quando Dio lo deciderà, perché la realtà stessa ha una parte comica e una parte tragica. Quindi di fatto non posso essere io a deciderlo.Perché nei suoi libri ricorre così spesso il numero 23?
È il mio numero fortunato. Il 23 è un numero di estrema "rottura". Ne "I Ching" il numero 23 è l'esagramma della spaccatura, sia in senso positivo che negativo. E poi ci sono 23 geni nei cromosomi, il mondo ruota attorno ad un asse spostato di 23 gradi... Il 23 è anche un numero associato ai disastri, particolarmente quelli aerei. Statisticamente spesso gli incidenti aerei sono legati al volo numero 23, o contano 230 morti, o 23 feriti... Non prendo mai un volo numero 23, ma in altre occasioni invece scelgo sempre il 23. Ad esempio la stanza 23 negli alberghi, perché so che vi accadrà qualcosa di interessante, potrà essere terribile, meraviglioso, comunque mai qualcosa di ordinario. In effetti leggendo i miei libri (non in "Uno zoo lungo la strada" perché a quel tempo non avevo ancora messo a fuoco questa idea) il numero 23 ricorre molto spesso.Quali sono i romanzi della sua "formazione" che reputa immortali e che consiglierebbe a un ipotetico lettore?
Huckleberry Finn (Mark Twain), Alice nel paese delle meraviglie... Questi sono stati i primi. Poi ho scoperto gli autori dell'avanguardia francese: Alfred Jarry, Apollinaire, Baudelaire.Sta lavorando a un nuovo romanzo?
Il mio prossimo libro si chiamerà "Polmonite galoppante". Gli Stati Uniti soffrono di polmonite galoppante. Si tratta di una malattia che non lascia prevedere le conseguenze. L'America ne soffre ma non sa quanto sia grave la sua patologia. Penso che sia molto interessante vivere in America, ma anche molto scoraggiante, nel senso che tutto sembra fatto apposta per far diventare stupida la gente: la televisione, Hollywood ecc. Fattori che istupidiscono la gente anziché renderla più acuta. L'America è come il numero 23: ottima sotto un certo punto di vista e pessima sotto un altro. Non presto troppa attenzione ai problemi politici degli Stati Uniti. Non che non ci siano o non siano importanti, ma il problema più grosso dell'America è secondo me di ordine filosofico e spirituale. Finché non saranno risolti questi problemi, quelli politici continueranno ad esserci e a riprodursi. Non saranno risolti finché l'essere umano non cambierà.
sabato 24 maggio 2014
venerdì 16 maggio 2014
martedì 13 maggio 2014
giovedì 8 maggio 2014
la ragione della scelta del prossimo incontro del 15 luglio su "cent'anni di solitudine"
La
ragione della proposta di leggere (o rileggere) “ Cent’anni di
solitudine” sta tutta in queste righe, che Baricco ha scritto
immediatamente dopo la scomparsa di Marquez.
Per
noi ragazze del club si tratta sorprendentemente di un altro pezzetto
del puzzle che trova il suo posto nelle nostre riflessioni.
Ricordo
di Márquez attraverso la scoperta dei luoghi autentici che lo hanno
ispirato. Macondo esiste, è dove si danza con Gabo .
Si
muore tutti, ma qualcuno muore di più. Ci ho messo poco a capire,
giovedì sera, che la scomparsa di García Márquez non era solo una
notizia, ma un piccolo slittamento dell’anima che in molti non
dimenticheranno. L’ho capito dai messaggi che arrivavano, dalle sue
frasi che iniziavano
a piovere e rimbalzare ovunque.
Era anche
abbastanza tardi, la sera, in quelle ore in cui inizia a non starci
più niente, nella tua giornata, e se si ottura il lavandino lasci
perdere e rimandi a domani. Eppure in così tanti ci siamo fermati,
un attimo, e abbiamo saltato un battito del cuore.
Che poi,
diciamocelo, avevamo avuto anni per abituarci all’idea: Gabo se n’è
scivolato nell’ombra lentamente, con una certa timidezza, e in
fondo nel modo più gentile possibile. Quasi assurdo, per uno che
aveva scritto l’eterna e iperbolica morte della Mamà Grande. E’
come se Proust fosse morto facendo sci nautico. Ma, insomma, il tempo
lui ce l’aveva dato, per un commiato indolore. Credo che molti
ragazzini l’abbiano letto, in questi anni, e perfino amato,
pensando che fosse uno già morto (al contrario, ragazzi: nonostante
l’apparenza, non morirà mai). Eppure, al momento buono, quando si
è staccato dalla vita, silenziosamente come una figurina calciatori
da un album vecchissimo, ci ha fatto male, e ormai è andata
così.
Agli altri non so, ma a me ha fatto male perché io, a
Garcia Marquez, devo un sacco di cose. Tanto per cominciare, i venti
secondi in cui ho letto per la prima volta le ultime righe di L’amore
ai tempi del colera: avevo qualcosa come trent’anni e credo di aver
smesso lì, in quel preciso istante, e per sempre, di avere dubbi
sulla vita. Devo a una sua frase, che un editor gli avrebbe
sicuramente tagliato, la certezza che se dio ha creato il mondo,
gli uomini hanno poi creato gli aggettivi e gli avverbi, trasformando
un’impresa tutto sommato noiosetta in una meraviglia (no, la frase
me la tengo per me). Ho imparato da lui che scrivere è una faccenda
di generosità, un gesto senza vergogna, una mossa imprudente e un
riflesso sproporzionato: se non è così, quel che stai facendo,
tutt’al più, è letteratura. Ho scoperto, leggendolo, che i
sentimenti possono essere repentini, passioni devastanti, le
donne infinite; che gli odori non sono dei nemici, le illusioni non
sono degli errori, e il tempo, se esiste, non è lineare: tutte cose
che non mi avevano dato in dotazione quando mi hanno spedito a
vivere. Gli sono grato per la risposta che, rigirandosi
semiaddormentato nella sua amaca, il colonnello Buendia diede un
giorno quando lo avvertirono che era arrivata una delegazione del
partito per discutere con lui del bivio a cui era arrivata la guerra:
«Portateli a puttane». E soprattutto: non mi riuscirà di
dimenticarlo perché non ho letto una sola sua pagina senza ballare.
Anche nelle pagine brutte (ce ne sono) non si smette mai di ballare.
Io non c’entravo, io non so ballare, ma lui sì, e non c’era
verso di farlo smettere. E quando se ne vanno quelli con cui hai
ballato, metaforicamente o no, c’è qualcosa della tua bellezza che
se ne va per sempre.
Devo anche dire che per anni ho amato i libri
di Garcia Marquez
da lontano, senza aver mai messo piede in
Sudamerica. Poi una volta sono finito in Colombia. È stato un po’
come finire a letto con una donna con cui ti eri scritto lettere per
anni. Tanto per capirci, quando ai colombiani tu citi l’espressione
“realismo magico” quelli vanno a terra dal ridere. Comunque non
capiscono cosa significa. Perché quello che noi cerchiamo di
definire, loro lo posseggono come normale andazzo delle cose, atavico
paesaggio del vivere, ordinaria catalogazione del creato. Ti fermi a
chiacchierare dieci minuti con un cameriere e sei già a Macondo. È
che siamo poveri e abitiamo una terra complicata, mi ha spiegato una
volta un poeta di quelle parti. Quindi le notizie non viaggiano, il
sapere si sfarina, e tutto si tramanda nell’unica forma che non
conosce ostacolo e non costa niente: il racconto. Poi, con una
certa coerenza, mi ha raccontato questa storia vera (ma vera, lo
capite, da quelle parti è una parola piuttosto evanescente). Un
paese sulla costa, per la festa grande, ingaggia un circo della
capitale. Il circo si imbarca su una nave e fa rotta verso il paese.
Non lontano dalla costa, però, fa naufragio: tutto il circo va a
fondo, e le correnti se lo portano via. Due giorni dopo, in un paese
vicino (ma vicino, da quelle parti,
significa poco, perché se non
c’è una strada che spacca la foresta potresti essere anche a mille
chilometri), i pescatori escono la sera a tirare le reti. Non sanno
niente dell’altro paese, niente del circo, niente del naufragio.
Tirano su le reti e dentro ci trovano un leone. Non fanno una piega.
Tornano a casa. Com’è andata oggi?, avranno chiesto al pescatore,
a casa, tutti intorno al tavolo, a cena. Ma niente, oggi abbiamo
pescato leoni.
Noi questa cosa la chiamiamo “realismo
magico”. Capite bene che quelli non capiscono.
Insomma, sono
finito in Colombia e allora tutto mi è parso finale e compiuto.
Soprattutto se ci si spinge nella foreste caraibiche del nord, dove
Garcia Marquez è nato e dove, invisibile e senza fine, dimora
Macondo. I corpi, i colori, la natura vorace, gli odori, il caldo, i
colori, l’indolenza febbrile, la bellezza esagerata, le notti, le
solitudini, ogni pelle, qualunque parola. Quando sono tornato,
ho dovuto rileggere tutto da capo, ed è stato come ascoltare da
un’orchestra una musica che avevo sentito alla chitarra. Lì ho
capito che c’è un solo modo di ballarla: sudando. Con la camicia
fradicia, dunque, continuerò a ballare e poco importa se la figurina
si è staccata dall’album: sono dettagli. Ho le tasche piene di
frasi di Gabo, e all’occorrenza, sarà un nulla trovare due luci e
un parquet su cui farmi portar via.
Lucy
incontri precedenti novembre e febbraio
Espiazione con lode
La Mostra al 75mo con un parterre eccellente di
divi e autori. E un asso nella manica: l'adattamento del libro di
McEwan diretto da Joe Wright
Espiazione di Joe Wright tratto dal bestseller dell'anglosassone Ian McEwan è un gran bel film. James McAvoy, già visto nell’Ultimo re di Scozia,
è bravissimo e scommettiamo che vincerà più di un premio, incominciando
(forse) proprio dal festival di Venezia, di cui Espiazione è l’evento
di apertura (chapeau a Marco Muller). Ma la rivelazione si chiama Saoirse Ronan:
gallese, nome impronunciabile, sullo schermo è l’alter ego della
giovane Briony Tallis inventata da McEwan, ed è la protagonista di un
altro film molto atteso: The Lovely Bones tratto dall’omonimo libro (Amabili resti) di Alice Sebold e diretto da Peter Jackson. Il plot di Espiazione
ruota intorno a una domanda affascinante: esiste uno scrittore che non
abbia avuto la tentazione di cambiare il corso della storia delle sue
creature? Di riservargli un destino migliore o persino peggiore? Questo
potere di vita e di morte sui personaggi può diventare reale? Dietro
l’adattamento, piuttosto fedele, di Atonement, titolo originale di Espiazione, c’è la mano di Christopher Hampton, premio Oscar per Le relazioni pericolose
e insignito nell’arco della sua carriera di numerose onorificenze per
lavori letterari; ma Joe Wright, classe ’72, trascorsi televisivi, che
ha esordito al cinema due anni fa con l’elegante trasposizione di Orgoglio e pregiudizio, ha davvero talento. Espiazione
presentava più di una difficoltà, soprattutto la sua trasposizione in
immagini (e che trovate anche visive...). La trama, un vero campo
minato, ha un fil rouge: una grande passione negata, in mezzo la seconda
guerra mondiale, sullo sfondo la crudeltà di una ragazzina dall’ego
troppo sviluppato. La tredicenne Bryoni, la cui fervida immaginazione le
fa commettere un atto spaventoso, che rovina l’esistenza di sua sorella
Cecilia (Keira Knightley)
e del suo innamorato Robbie (James McAvoy), accusato ingiustamente di
violenza sessuale. Ottima partenza quindi per il concorso veneziano,
diretto da Muller, che schiera un parterre di divi (e film) da fare
invidia anche a Cannes. Oltre a Keira Knightley, c’è Vanessa Redgrave (finale magistrale) per Espiazione, George Clooney per il legal thriller di Tony Gilroy Michael Clayton (opera prima), Brad Pitt per The Assassination of Jesse James. Poi Richard Gere, Cate Blanchett, Christian Bale ecc. in una multipla performance della vita di Bob Dylan (I’m not There) firmata da Todd Haynes (che manca da Venezia dal bel Lontano dal Paradiso). Michael Caine e Jude Law per il remake di una spy story, Sleuth, diretti da Kenneth Branagh. I nomi, sulla carta, ci dicono che la giuria ufficiale, presieduta da Zhang Yimou e formata da soli registi (tra cui Ferzan Ozpetek ed Emanuele Crialese) non avrà vita facile. Quanto ai nostri, nel mare magnum dell’offerta, colpisce la scelta di Muller: Paolo Franchi, Vincenzo Marra, Andrea Porporati.
VITA DI PI
VITA DI PI
La scialuppa vaga nell'oceano per diversi giorni e Pi assiste terrorizzato all'uccisione della zebra e dell'orango da parte della iena e alla morte di quest'ultima per mano di Richard Parker. Rimasto solo con la tigre, Pi medita di ucciderla per timore di essere ammazzato a sua volta. Intanto sulla scialuppa trova un kit di sopravvivenza per i naufraghi: dei distillatori d'acqua marina, delle scorte di cibo e acqua, degli attrezzi per la pesca, giubbotti di salvataggio e altri oggetti cui costruisce una zattera che lega alla scialuppa per stare a distanza dalla tigre. Col passare dei giorni, decide di addestrarla dimostrandosi autoritario per farsi ubbidire e per stabilire gli spazi sulla scialuppa, ma anche amichevole e generoso per aiutarla a sopravvivere.
Pi imparerà a pescare e uccidere e a combattere contro le avversità. Pur temendo spesso di morire e consapevole di essere in balia del fato, la speranza di sopravvivenza, la fede in Dio e la condivisione degli oggetti e degli spazi con Richard Parker lo motiveranno facendolo diventare comunque un uomo più risoluto e sicuro. Si affezionerà ad alcuni animali marini e resterà ammirato dai delfini, dalle balene e dagli squali. Non mancheranno gli scontri psicologici con la tigre e imprevisti come tempeste o periodi torridi, cui conseguirà malessere fisico, mentale e morale. Durante il viaggio incrocerà una nave petroliera ma non riuscirà a segnalare la propria presenza e verrà abbandonato.
A causa degli stenti, Pi perderà la vista per alcuni giorni, durante i quali farà un incontro con un altro naufrago, ma Richard Parker lo ucciderà per sbranarlo. Pi e la tigre approderanno su un'isola deserta popolata solo da suricati. Ma poi scoprirà che l'isola non è altro che un agglomerato di alghe corrosive e letali, di conseguenza la abbandonerà. Alla fine, dopo 227 giorni di naufragio, approderà in Messico dove Richard Parker, con il quale ha costruito un rapporto speciale, fuggirà in una foresta abbandonandolo.
In ospedale, davanti ai due agenti della compagnia assicuratrice della nave trarrà le conclusioni morali e religiose della sua peregrinazione e davanti alla loro incredulità, gli proporrà un altro racconto, più semplice e senza animali, invitandoli a scegliere: i due intervistatori opteranno per la storia con Richard Parker. Il libro è diviso in tre parti, ma possiede pure una struttura unitaria. La prima parte è composta dalle elucubrazioni di un ragazzo sulla spiritualità e la vita in India. La seconda (che comprende la maggior parte del testo) è la fusione del ricordo dettagliato e realistico della sopravvivenza e di una fantastica allegoria, in uno stile medioevale.
L'ultima, dove Pi viene salvato e la verità della sua intera esperienza è messa in dubbio, penetra più a fondo nell'analisi della duplice sete per la sopravvivenza e per la fede. L'ultima parte offre anche veramente al lettore la possibilità di scegliere la versione della storia che preferisce. Pi mostra due modi di guardare la stessa realtà e scegliere la storia "migliore" richiede un atto di fede. Ci sono tre importanti religioni d'interesse in questa storia: l'induismo, l'Islam ed il Cristianesimo, rappresentate da Pi Patel. Anche il concetto filosofico di ateismo è raffigurato dal signor Kumar.


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