lunedì 28 luglio 2014

intervista a Marco Cubeddu

Oggi ho il piacere di presentarvi, carissimi lettori, il nuovo enfant terrible della letteratura italiana che si è reso disponibile per un'intervista con TRAMEstio interiore, stiamo parlando di Marco Cubeddu che ha esordito con il suo primo romanzo C.U.B.A.M.S.C -Con una bomba a mano sul cuore- (Mondadori) e tutto fa già parlare di lui,  ma prima scopriamo qualcosa di più sul suo conto…

Foto di Giulia Ferrando


               
È stato definito da molti il nuovo enfant terrible della letteratura italiana, un giovane, di soli 25 anni, su cui tanti scommettono.
Marco Cubeddu è nato a Genova poco prima della caduta del Muro. Dopo il diploma ha frequentato la Scuola Holden a Torino, mantenendosi facendo il pompiere.
Sotto vari pseudonimi pubblica regolarmente racconti su "Nuovi Argomenti". 
Studia fotografia e arte contemporanea e ultimamente ha iniziato una collaborazione con "Panorama".
Il suo percorso, dice, è più mirato alla realizzazione artistica e cinematografica che a quella letteraria, anche se ovviamente quest'ultima non viene disdegnata.
C.U.B.A.M.S.C. è il suo primo romanzo.
Ciao Marco, benvenuto su TRAMEstio interiore,
grazie di aver accettato di fare quest'intervista!
Volevo iniziare chiedendoti il segno zodiacale, l'ascendente e possibilmente il tuo colore preferito…
Dai, sto scherzando!
Le banalità lasciamole ad altri.
Ti lascio campo libero per raccontare, il non raccontabile, ai lettori del blog.

Mah, il raccontabile l'ho già raccontato. E l'irracontabile contravverrebbe alla sua natura ontologica se venisse raccontato, Però posso dirti una cosa che può sembrare sgradevole, ma non vorrebbe esserlo.
Risponderò alle tue domande con un tono non dico non censurato (sarà censurato eccome) ma molto meno di quanto in genere non stia facendo nelle altre interviste. E questo perché spero che essendo minore la visibilità di queste dichiarazioni di quelle, per dire, su Gioia e su Panorama, passeranno inosservate alle persone della casa editrice. Dandomi però la possibilità di essere più aderente alle mie convinzioni che comunque sono molto peggiori di quelle che esprimerò nelle mie risposte.
Come più volte hai evidenziato nel tuo libro, ti ispiri molto a Nabokov, che è una specie di "maestro" per te.
Famosa è la sua collezione di farfalle e per questo mi chiedevo se tu, pure, collezionassi qualcosa.


Il disordine. Il disordine del desktop dei miei pc (che puntualmente si rompono offrendomi nuovi spazi da disordinare) il disordine delle mie stanze da letto, delle cucine, dei bagni di tutte le molte case che ho abitato. E, come conseguenza, colleziono tutta una serie di feticci, infantili e non, che collezionano anche le ragazzine adolescenti, come i biglietti di concerti e del cinema e tutta quella serie infinita di ciarpame che investo di un significato così sproporzionato. Ma la coscienza di un atteggiamento patologico con il divenire, la consapevolezza che si tratti di un tentativo di ordinare quel qualcosa che è la disgregazione della propria vita, non mi salva dal farlo. Quindi lo faccio. E casa mia assomiglia allo studio di Francis Bacon. Ci sono collage, fotografie, vestiti ovunque, pentole dimenticate in cui è fiorita la muffa, due calendari Pirelli, bottiglie di whisky, Topolini, libri, un machete, due passaporti, valigie, buste di tabacco, cicche sparse, resti di angurie delle estati passate, candele, guanti da boxe, analgesici, periodici, etc., etc.
Alessandro Spera potrebbe essere definito il tuo alter ego: ti sei proiettato in questo romanzo per esorcizzare qualcosa?


Un uomo straordinario, che ho avuto il piacere di avere come insegnante, che si chiama Luca Rastello, sintetizzò in una frase i concetti su cui riflettevo da anni: "narrare per non morire".
La scrittura ha indubbiamente un valore terapeutico.
Come l'arte in generale. Sposta, la morte, più in là. E, spostando la morte più in là, noi viviamo. Quelli di noi che hanno sufficiente malinconia e sufficiente megalomania, tentano di creare le cose belle, sempre inutili, che chiamiamo opere d'arte. 
L'alter ego è un problema dei critici, non degli artisti. Gli artisti, come le loro creazioni, sono sempre altro. Non sono che emanazioni di uno sguardo particolare, fragilissimo, nello spazio e nel tempo, di un infinito morire.
Il tuo cognome mi fa pensare alla Sardegna che più volte emerge dalle pagine di C.U.B.A.M.S.C.
C'è qualcosa in particolare che ti lega a questa terra meravigliosa?
Mio padre e alcuni fra i miei parenti più cari vivono a Ploaghe, in provincia di Sassari, paese natale della nonna materna di Italo Calvino, Maddalena Cubeddu; 
che, come mi hanno detto recentemente (con una surreale telefonata di una ricercatrice messicana) dovrebbe essere una mia antenata. 
Ho passato molte estati e festività in Sardegna, ma io sono nato a Genova dove attualmente sono tornato (provvisoriamente) a vivere. E sono senza dubbio più genovese che sardo.
Ho notato, da appassionata, molti riferimenti alchemici ed occulti, un caso o intenzione?
Messa in questi termini assolutamente un caso. Che sto scoprendo con questa domanda. Se, con riferimenti alchemici ed occulti, intendi i personaggi letterari, le citazioni di film e libri, e serie tv e canzoni pop, allora la risposta è senza dubbio intenzionalmente ma se intendi, come credo, letteralmente alchemici e occulti, ti giro volentieri la domanda e ti chiedo quali riferimenti ci hai visto?
Che razza di demoni ho evocato?
Ho costruito senza saperlo uno di quei libri che nei film horror viene letto da uno scettico nerd e che poi  scatena su tutto il gruppetto di isolati bambocci terribili forze oscure?

Guardando le tue foto ho trovato una chiara corrispondenza tra i tuoi tatuaggi e quelli del tuo protagonista. 
Sulla tua pelle sono apparsi prima o dopo la stesura del romanzo?
Puoi spiegarci il significato di alcuni di essi?
Io e Alessandro Spera abbiamo condiviso alcune esperienze. Di alcune si è parlato. Di altre non parlerò direttamente mai anche se credo ne scriverò ancora.
I tatuaggi sono nati alcuni prima addosso a me e alcuni prima addosso a lui, altri contemporaneamente, in tempo reale. I miei tatuaggi sembrano quelli di un galeotto messicano. Ero convinto di avere ancora l'aspetto efebico di quando avevo 17 anni. Ho scoperto di sembrare un galeotto dopo aver visto alcuni ritratti senza vestiti che mi aveva fatto un'amica. Nonostante questo, ogni tatuaggio, per quanto tamarro, ha per me un significato molto profondo. Si tratta, dal mio punto di vista, non solo di un'estetizzazione di concetti che fanno parte delle mie ossessioni, ma anche, e soprattutto, di un memorandum. Una sorta di memento mori. Un modo per non dimenticarmi non tanto chi sono, quanto chi ho scelto di essere. Il concetto che lega tutti i tatuaggi è il rapporto con l'eternità. O meglio, con la percezione dell'eternità, che noi, esseri finiti, abbiamo.
Il nastro di Möbius, con carri armati e ruspe che lo compongono, oltre a essere la trasposizione di un lavoro di un artista che ho scoperto a Praga, è quel concetto del divenire, come parte di un prodotto di creazione e distruzione che ha sintetizzato Herzog durante una chiacchierata che ho avuto il privilegio di avere con lui, a Torino. Disse: "quando guardo il cielo, vedo la violenza dell'universo". Ecco, la violenza, in questo senso, e solo in questo senso, mi sembra uno strumento eccezionale per la bellezza.
Bill, è un monito, di nuovo, relativo all'identità. O per essere ancora più precisi, alla diventità.
It's so cold in Alaska, di nuovo, è qualcosa che esprime un senso di così profonda malinconia e solitudine, che mi fa pensare a Gorgia e alle sue riflessioni sull'inconoscibilità e sull'incomunicabilità del reale. Poi che altro, le Colt, col punto del morto, prendono spunto da una poesia di Michele Mari, nella sua raccolta Cento poesie d'amore a Ladyhawke, per me un punto di arrivo straordinario della poesia contemporanea. Parla di Wild Bill Hickok, il dandy del West, freddato con una doppia coppia di assi e otto in mano, e una carta nascosta in cui ho scelto di vedere una donna di cuori. Straordinariamente pop, straordinariamente pulp, straordinariamente letterario, eroico, piatto, fallimentare, come tutti gli eroi letterari, sento quel cowboy molto vicino.
We last si spiega da sè. E poi, naturalmente, c'è la bomba a mano sul cuore. Se dovessi suicidarmi, cosa che non ho intenzione di fare, ma alla quale, come tutti, ho pensato, lo farei lasciandomi esplodere una bomba a mano proprio sul cuore, andandomene in un violento scoppio di gioia.
Dato che in tutto il libro riecheggiano film e musiche degli anni Ottanta, ti chiedo, vedresti C.U.B.A.M.S.C sul grande schermo?
Se sì, accompagnato da quale colonna sonora, interpretato da quale attore, ma soprattutto girato da chi (megalomanie a parte, io lascerei stare Tarantino)?
No, Tarantino, megalomanie a parte, non sarebbe l'autore giusto. Certo, lo vedo, e credo che il potenziale cinematografico del libro potrebbe sfuggire solo per la miopia e la trita mediocrità dei cineasti italiani, fatto salvo, naturalmente, Sorrentino, per cui nutro una stima assoluta, nonostante sia napoletano. Altri autori, sicuramente, hanno numeri e capacità. Ma la loro visione, per quanto ho potuto vedere, è così tristemente legata alle logiche sociali e melò che probabilmente ne verrebbe fuori un'amalgama di controversie esistenziali del protagonista e dei suoi vicari, prodotto con un budget ridicolo, tecnicamente irrilevante.
A livello internazionale vedo il film fatto dai Cohen, forse, o da Paul Thomas Anderson (tenuto a freno) o da Mc Queen commissariato e senza possibilità di intervenire sulla sceneggiatura.
Altrimenti potrei girarlo io, che sarebbe la soluzione migliore, anche se in questi tempi di crisi, trovare un produttore così lungimirante da investire milioni in un'opera prima di un regista esordiente, mi sembra complicato.
In realtà mi ero dimenticato di Guadagnino, tra gli italiani.  E ce ne sono molti altri all'estero che potrebbero fare un buon lavoro (anche se non Herzog, non Von Trier e non Lynch).
Attori e colonna sonora? Sai che è una domanda difficile? Perché non riesco a rispondere a caso e dovrei effettivamente pensare a chi far fare Alessandro Spera e, soprattutto, a chi far fare Mel. Se solo Spera fosse biondo direi DiCaprio, e lei proprio non lo so. Colonna sonora, dipende dal tipo di film, io ci vedrei molta elettronica.
No, il film italiano che si potrebbe fare e che, con qualche paletto, potrebbero fare un po' di bravi registi italiani e soprattutto Sorrentino, che sarebbe perfetto, è Pornokiller, il best seller di Alessandro Spera girato nel libro proprio da Sorrentino. Tra l'altro, non solo Pornokiller esiste come libro di genere, ma esiste ovviamente anche la sceneggiatura. Si tratta di un film molto facile, molto italiano e molto spendibile all'estero.

Nel romanzo Spera viaggia molto alla ricerca della sua Mel, tu, quale di quei posti hai visitato di persona e quale, fra tutti, ti è rimasto più impresso?

Marsiglia, è una delle mie città preferite. Anche Istambul. Chiunque abbia vissuto a Londra sa che è il miglior posto in cui vivere, a meno che non ci si voglia trasferire a Berlino che è come Londra ma molto più economica. In generale, in tutti questi posti e in altri, specie negli Stati Uniti, mi sono sentito molto più a casa che nello squallido, provinciale, miserabile giardinetto italiano. Non capirò mai fino in fondo per quale ragione, tutta la piccola folla di buffoni che dicono che se vince ancora Berlusconi lasciano il paese, non se ne vadano. A parte, naturalmente, la loro totale cialtroneria e il loro endemico provincialismo, che li rende degli odiosi hipster e degli insopportabili radical chic. Il vero nemico dell'arte e della bellezza sono i progressisti.
Non amo strozzare gli artisti con etichette preconfezionate, però mi incuriosisce sapere con quale genere letterario ti senti più a tuo agio.
Ma soprattutto quale ti senti di rappresentare.
Non saprei. Non penso esistano artisti, nel senso compiuto del termine, che siano accomunabili ad altri. Esistono bravi mestieranti, artigiani, ma non artisti, integrati. Certo, dovessi dirti dalla parte di chi voglio stare, in Italia ad esempio, ti direi Piperno, o Mari (o Calvino, fra i morti). Ma non mi lega molto a loro se non l'influenza di alcuni maestri e un'idea, direi onorevole, di artista non impegnato in sciocche militanze da quartierino. Le scuole, i periodi, i circoli letterari sono quanto di più sciocco la mente dei critici sappia vedere in un artista. E quanto di più volgare, un pubblico non educato riesca a concepire.
Toglimi l'ultimissima curiosità.
Ma perché,
perché un libro rosa?
Questo dovresti chiederlo a chi ha concepito il packaging del libro, che si presenta in un formato che lo rende enorme e che viene moltiplicato dalla scelta (orrenda) del colore e del primo piano in copertina. Purtroppo viviamo in un mondo in cui scarseggiano gli artisti e abbondano i grafici. Che sono, più di qualunque figura paraartistica, il nemico.
No, il fatto è che la formalizzazione finale dell'oggetto libro non può e non deve dipendere solo dall'autore. " A meno che l'autore non sia io" penso, erroneamente, alle volte. Ma scherzi a parte è davvero qualcosa di complesso in cui tante figure, in tanti momenti e modi diversi cercano di lavorare bene al risultato finale. Onestamente, potrei produrre molta mail in cui mi abbandono a un'ira smisurata si questa cosa dei primi piani e del colore.
Poi però mi è stata spedita la prima copia a casa, con un biglietto di Antonio Franchini e di tutti gli altri meravigliosi editor (molti, donne) della narrativa italiana. E così ho potuto inviare una mail collettiva con scritto: "È grosso. È duro. È rosa. E ce l'ho in mano".
Grazie infinite per la disponibilità e la simpatia.
Ancora mille compimenti per il tuo lavoro e un in bocca al lupo per i tuoi futuri, spero prossimi, successi.
Ciao Marco!
Per chi volesse approfondire, ecco i link riguardanti C.U.B.A.M.S.C.

prossimo incontro: 30 settembre C.U.B.A.M.S.C. di Marco Cubeddu

giovedì 17 luglio 2014

quarto incontro "cent'anni di solitudine" 15 luglio 2014


















tom robbins



Tom Robbins

intervista a tom robbins

Tom Robbins non passa inosservato. Innanzitutto è alto, ha un'andatura lenta, meditabonda, che ricorda il suo modo di parlare. Sorride spesso e cortesemente si preoccupa che le sue opinioni, pronunciate in uno stretto americano, vengano appieno comprese. Alle dita ha otto anelli molto appariscenti "perché 23 non posso metterli", e dalle sue risposte capiremo l'arcano...

Lei usa Internet?
Non molto. Con mio figlio, che vive a Praga, nella repubblica Ceca, utilizziamo spesso le e-mail per comunicare. Non navigo in Internet.
Il tema del viaggio ricorre nelle sue opere. Ma è un viaggio reale o immaginario?
Conosciamo così poco della realtà. Il 95% di tutto ciò che accade nell'universo è troppo veloce o troppo lento, troppo grande o troppo piccolo per essere percepito dai sensi umani... In definitiva può essere considerato un viaggio reale involontariamente immaginario.
Il viaggio in Internet per i giovani è paragonabile a quello "on the road" degli anni Sessanta o Settanta?
Il viaggio su strada e il viaggio su strada elettronico?
Sì, esattamente.
I giovani così non consumano le scarpe, non si stancano le gambe... La domanda mi interessa molto, ma è per me un tema da sviluppare, su cui dovrei riflettere. Potrebbe essere un argomento per un prossimo romanzo. Nello scrivere un romanzo parto sempre da un titolo, poi giro la pagina e scrivo la prima frase...
Quali differenze vede tra la generazione di giovani attuale e la "beat generation"?
Sono molto più informati. Ho un figlio di 25 anni. Sa molto di più di quello che sapevo io alla sua età; i giovani adesso sono molto più preparati. Penso che la principale differenza stia proprio nella preparazione e nella conseguente capacità critica. Il mondo è diventato cosmopolita e i giovani sono molto meno 'naive' di quanto lo fossi io.
Di conseguenza, pensa che ci siano parti dei suoi romanzi scritti allora, che i giovani adesso non riescono più ad afferrare appieno?
Non credo. Ci sono giovani con grande apertura mentale, ma anche persone più anziane dotate di apertura mentale particolare. Non si tratta secondo me di una differenza generazionale, ma di capacità di afferrare i concetti. Persone che non abbiano una rigidezza di pensiero, con immaginazione, dotate di 'sense of humor' sono quelle che amano i miei libri e li capiscono, al di là dell'età.
I suoi personaggi, quale parte della società rappresentano?
Le persone eroiche, o particolarmente importanti. I "grandissimi" [in italiano nell'intervista n.d.r.]. Mai persone ordinarie o vite ordinarie, figure straordinarie. Ma queste persone non sono necessariamente immaginarie. Ci sono nella vita persone straordinarie.
E quale parte ha il paradosso in questi personaggi?
Per tutti quelli che hanno studiato la vita, è ovvio che esista il paradosso. Nei paesi orientali dell'Asia non si dubita di ciò. In America non è invece accettato e tutti sono un po' spaventati all'idea che la vita in sé contenga un paradosso. Quando scrivo un passaggio particolarmente serio, alla fine cerco sempre di mettere una parte umoristica, una parte divertente o di sottolinearne l'aspetto "cattivo", o straordinario e di inserire sempre un paradosso finale. Come qualcuno che tiri improvvisamente un tappeto da sotto i piedi, io tolgo le certezze acquisite e lascio la storia "in aria". Cerco sempre di parlare al mio lettore e quando questo è arrivato quasi al "torpore" cerco di dargli uno scossone.
Quanto si identifica con il suoi personaggi?
Non c'è mai un personaggio in cui identificarmi. Anche il dottor Robbins de "Il nuovo sesso: cowgirls" aveva il mio nome ma non ero io. Voglio evitare tutto quello che può essere autobiografico, non voglio riprodurre me stesso. È però vero che in tutti i personaggi c'è qualcosa di me, anche in quelli femminili. Quando ho pensato ad Amanda, il personaggio che c'è in "Uno zoo lungo la strada", cercavo di affrontare la parte femminile che c'è in me. I personaggi non sono neanche basati sui miei amici o conoscenti, sono semplicemente una combinazione di vari fattori. Non so perché molti autori vogliano scrivere della loro vita, anche perché spesso non hanno vite molto interessanti... Per scrivere i miei libri impiego molto tempo, perché voglio pensare al ritmo della frase... Talvolta impiego anche due anni, tre anni. Essendo chiuso in una stanza per due o tre anni con i miei personaggi voglio almeno che questi siano interessanti: ad esempio donne indipendenti, forti, dinamiche e mai veri e propri "cattivi". Voglio proprio evitare di stare chiuso tanto tempo in una stanza con personaggi antipatici...
Parliamo invece dell'umorismo e della satira e del ruolo che svolgono nei suoi romanzi.
Non uso molto la satira. Distinguo un umorismo "importante" da quello che non lo è. Esiste un umorismo fine a se stesso e un umorismo che serve. Perciò non uso molto la satira, bensì l'umorismo perché secondo me questo può rendere la commedia, la trama inappropriata, blasfema, può rendere il testo maleducato e perciò serve ai miei fini. Non mi serve invece la satira perché la satira è, appunto, fine a se stessa. Posso fare una satira del governo, ad esempio, ma alla fine il dito sarà puntato sul governo, invece io voglio che la cosa più importante sia il testo. L'umorismo è "autonomo", la satira non mi permette di arrivare ai miei fini, di concentrarmi sulle parole, sul testo, sulla dinamica del testo. Il mio umorismo è anche particolare e se un lettore non è particolarmente attento o "portato" verso questo tipo di umorismo non sa mai quando sto scherzando o quando invece non scherzo. Può essere anche irritante, però se una persona ha la capacità di "andare a fondo" riuscirà a capire benissimo quando mi prendo gioco di una cosa e quale è il mio scopo.
Come spiega il successo, l'interesse che, a distanza di 25 anni, ancora suscita il suo romanzo "Another Roadside Attraction" (Uno zoo lungo la strada)?
Non ho idea. Credo perché il valore sia ancora gran parte delle conoscenze umane. Sento che ovunque io vada c'è un grande desiderio nella gente di qualcosa di rituale, qualcosa di cerimoniale, di più profondo della vita quotidiana, una ricerca del mistero, del "grande mistero". Penso che la gente ne abbia un gran bisogno e lo ricerchi ancora nei libri. Venticinque anni non hanno cambiato la situazione.
Cosa pensa delle recensioni?
Abitualmente non leggo le recensioni, da molti anni ormai. In una recensione del New York Times un critico affermava: 'Tom Robbins dovrebbe capire se vuol essere serio o vuol essere divertente. Perché non si decide?' A questo io rispondo che lo deciderò quando Dio lo deciderà, perché la realtà stessa ha una parte comica e una parte tragica. Quindi di fatto non posso essere io a deciderlo.
Perché nei suoi libri ricorre così spesso il numero 23?
È il mio numero fortunato. Il 23 è un numero di estrema "rottura". Ne "I Ching" il numero 23 è l'esagramma della spaccatura, sia in senso positivo che negativo. E poi ci sono 23 geni nei cromosomi, il mondo ruota attorno ad un asse spostato di 23 gradi... Il 23 è anche un numero associato ai disastri, particolarmente quelli aerei. Statisticamente spesso gli incidenti aerei sono legati al volo numero 23, o contano 230 morti, o 23 feriti... Non prendo mai un volo numero 23, ma in altre occasioni invece scelgo sempre il 23. Ad esempio la stanza 23 negli alberghi, perché so che vi accadrà qualcosa di interessante, potrà essere terribile, meraviglioso, comunque mai qualcosa di ordinario. In effetti leggendo i miei libri (non in "Uno zoo lungo la strada" perché a quel tempo non avevo ancora messo a fuoco questa idea) il numero 23 ricorre molto spesso.
Quali sono i romanzi della sua "formazione" che reputa immortali e che consiglierebbe a un ipotetico lettore?
Huckleberry Finn (Mark Twain), Alice nel paese delle meraviglie... Questi sono stati i primi. Poi ho scoperto gli autori dell'avanguardia francese: Alfred Jarry, Apollinaire, Baudelaire.
Sta lavorando a un nuovo romanzo?
Il mio prossimo libro si chiamerà "Polmonite galoppante". Gli Stati Uniti soffrono di polmonite galoppante. Si tratta di una malattia che non lascia prevedere le conseguenze. L'America ne soffre ma non sa quanto sia grave la sua patologia. Penso che sia molto interessante vivere in America, ma anche molto scoraggiante, nel senso che tutto sembra fatto apposta per far diventare stupida la gente: la televisione, Hollywood ecc. Fattori che istupidiscono la gente anziché renderla più acuta. L'America è come il numero 23: ottima sotto un certo punto di vista e pessima sotto un altro. Non presto troppa attenzione ai problemi politici degli Stati Uniti. Non che non ci siano o non siano importanti, ma il problema più grosso dell'America è secondo me di ordine filosofico e spirituale. Finché non saranno risolti questi problemi, quelli politici continueranno ad esserci e a riprodursi. Non saranno risolti finché l'essere umano non cambierà.