La nemica è
il suo secondo lavoro. Ucraina naturalizzata francese, di padre ebreo
(come ebreo sarà il futuro marito), convertitasi al cattolicesimo,
deportata ad Auschwitz, dove morirà di tifo nel 1942, a soli 39 anni:
tratti biografici fondamentali questi, ma non sufficienti a comprendere
una personalità complessa e contraddittoria quale può meglio dispiegarsi
nella Vita di Irène Némirovsky (Olivier Philipponnat - Patrick Lienhardt, Adelphi, 2009) e in Mirador: Irène Némirovsky, mia madre (Elisabeth Gille, Fazi, 2011).
Perché la “nemica” è la madre della protagonista, Gabri. La narrazione, condotta
da un osservatore esterno che tuttavia per la quasi totalità del
romanzo si cala nel punto di vista della giovane, ritrae la bambina e
poi adolescente come abbandonata a se stessa, tradita nel suo naturale
bisogno d’amore e tenerezza da una genitrice frivola ed egoista, lei
stessa vittima di vuoti, disperatamente e ciecamente alla ricerca di una
vitalità piena anche a risarcimento alle miserie di un’esistenza
segnata dalla povertà; risarcimento che la donna si illude di ottenere
narcisisticamente sfoggiando la propria bellezza in un’ossessione
esclusiva al culto di sé, parallela a quella della passione per il
giovane cognato, condotto a Parigi dal marito dopo il suo forzato esilio
motivato dal tentativo di risollevare le sorti economiche della
famiglia. Morbosamente fascinata dal lusso superficiale e corrotto della
borghesia parigina, la madre Francine abbandona Gabri e la sorella
minore Michette a sé stesse, condannandole ad un’indipendenza prematura e
ad un’autoeducazione che, senza sani e stabili punti di riferimento,
non può che condurre a un esito distruttivo. La piccola Michette morirà,
sola. Gabri intraprenderà il suo percorso di formazione mossa da un
odio e da un rancore profondi nei confronti di Francine, decisa a vivere
la sua femminilità liberamente: moglie adultera (di un ebreo arricchito
che sa e finge di non sapere); madre dispensatrice di principi che è la
prima a non rispettare. Unamadre
odiata – necessariamente – per la sua indifferenza; che non vede e non
ascolta; e scava dunque in Gabri un astio ed un risentimento destinati a
tramutarsi presto in desiderio conscio di vendetta. Ecco dunque Gabri
optare per una doppia vita, introdottavi da un’amica pure danneggiata – e
inizia allora il viaggio alla devalorizzazione di sé fino all’atto di
amore violento impostole da un nobile russo decaduto –; e poi cedere
alla relazione con l’amante della madre. Tra pulsioni insofferenti di
ogni controllo razionale, in assenza di una moralità foss’anche debole a
fungere da argine, nell’assoluto dominio di istinti e perversioni che
conducono a rapporti deviati e devianti, non può che profilarsi al
finale la tragedia.
Tralasciando
osservazioni relative al linguaggio mancando la lettura del testo in
originale, è evidente che la narrazione possiede un ritmo narrativo
sicuro (scrittrice di talento è Irène Némirovsky). Ma la vicenda è
raccontata con una superficialità a tratti persino fastidiosa; scorre
attraverso luoghi, relazioni, anime, emozioni accostati paratatticamente
senza alcuno scavo significativo che permetta loro di incidersi nella
mente e nell’animo del lettore. Le singole causalità psicologiche sono
chiare (da manuale), come lo è il loro succedersi diacronico. Ma le
passioni e i tormenti non sono né espressi né indagati come sarebbe
accaduto se l’autrice fosse stata più matura e, soprattutto, capace di
distanziarsi da una materia per lei troppo scottante. La collocazione
storica, che pochi tratti decisi e opportuni avrebbero permesso di
delineare risultandone arricchiti il panorama e lo spessore stesso del
testo (tanto più considerando la psicologia dei personaggi legata a
doppio filo alla crisi del primo dopoguerra), è sostanzialmente assente,
apparendo accennata più come nota di colore che come veicolo di senso.
Vola
e sorvola, Pierre Nérey; come se dovesse farlo perchè tutto ribolle
troppo; come se contasse solo scrivere – cioè dire ad alta voce – ciò,
violando finalmente il velo ipocrita e il silenzio in una non più
sostenibile ansia di liberazione.
La nemica è
dunque il racconto di una duplice vendetta: quella di Gabri e quella
della scrittrice. Per la quale, più della tragedia finale, pare contare
la frase che seccamente, ex abrupto,
conclude l’opera: “Signore, Signore, perchè mi colpisci in questo
modo?”. È la madre a parlare; lei colpita ora da un dolore definitivo,
ma ancora ottusa e priva di strumenti per comprendere e gestire sé ed il
mondo, al punto da ostinarsi a non assumersi responsabilità e colpe per
la corsa al degrado della figlia. Gabri
ha corso come ha corso Irène. Doveva correre, Irène. Per arrivare a ciò
che solo le premeva: la condanna estrema attuata attraverso il racconto
della verità e l’urlo del proprio disprezzo.
Perchè dunque si dovrebbe leggere La nemica?
Per la vicenda narrata, certo. Ma anche e soprattutto perché permette
di approfondire la conoscenza di una vicenda esistenziale ed artistica
ricca e complessa, aggiungendo un prezioso tassello alla comprensione
del microcosmo biografico-psicologico e letterario di Irène Némirovsky.
Microcosmo capace di destare commozione e partecipazione ma anche
indignazione al punto da essere a volte oggetto di una lettura
selettiva. Penso al David Golder
in cui il ritratto caustico e feroce, a tratti persino disturbante, di
un ricco ebreo di cui si narra il percorso di degradazione, presenta
moltissimi degli stereotipi antisemiti di cui fece grande uso il Nazismo
(e non solo). E per questo risulta ancora oggi scandaloso e
imbarazzante. Forse che invece l’autrice intendeva colpire le devianze e
le perversioni di certi aspetti della società ebraica a cui
apparteneva? E porsi in confronto critico con la civiltà in cui ci si è
formati e di cui si è parte non è forse intrinseco alla creazione
letteraria? E
forse che non ha nutrito il ferro rovente della scrittrice l’intima
conoscenza di certa parte della cultura ebraica, alla quale ha avuto
accesso preferenziale per via biografica e attraverso relazioni non
edificanti? Forse che la grande colpa della Némirovsky è stata quella di
essere un’ebrea che colpiva dall’interno? Con l’aggravante della sua
conversione? Se è vero che un testo letterario non può comprendersi ed
apprezzarsi quando astratto dalla biografia e cultura in cui è
germinato.
La nemica
è dunque tessera necessaria a capire e serenamente valutare l’universo
di una donna complessa come lo è la sua opera. Grazie dunque alla casa
editrice Elliot che ci permette di conoscerla meglio nel suo percorso
letterario, inscindibile – come non sempre accade così prepotentemente –
da quello esistenziale. Di là da ogni pregiudizio. Ci stupisce sempre Irène Némirovsky.