Pastorale americana di Philip Roth è stato il libro che mi è forse stato consigliato più di ogni altro, da tutti: condizione sufficiente per cui il mio giudizio, talmente galvanizzato, risultasse leggermente al di sotto dell’entusiasmo che lo ha accompagnato. Invece, se oggi dovessi elencare i cinque libri più belli che io abbia mai letto, Pastorale Americana troneggerebbe nella sua austerità, linearità e nel suo mistero. Non che io stia parlando di una cosetta: è il Pulitzer 1997. Però è un libro che ti cambia qualcosa. A livello umano, e a livello di scrittura.
Pastorale Americana è una famiglia che bruciaCome suggerisce la copertina italiana, ma non come fa intendere la quarta: lì è lo Svedese, protagonista del racconto, “nome magico” dell’infanzia dello scrittore, la cui vita si snoda in un arco di tempo delicatissimo per l’America Moderna, dagli anni ’50 agli anni ’80 del ‘900. Quello in cui Roth eccelle, però, è allargare il quadro. Ok lo Svedese, certo, d’accordo la figlia Merry, ma la moglie Dawn, e Rita Cohen? E suo padre, e la fabbrica? E gli anni ’60?
E l’American Dream?
Microstoria e macrostoria s’incontrano divinamente nel testoNel tentativo di comprendere una rabbia generazionale di cui la figlia del protagonista, Merry, è l’incarnazione. La loro rabbia è il combustibile, pensa lo Svedese, uno su cui tutti, da ragazzi, avevano scommesso la “fiche” del successo. Lo Svedese, quel campione di basket, che sposò quella meravigliosa Dawn, che prese con successo le redini dell’azienda del padre.
In Pastorale Americana però il successo non esisteIl libro tutto, forse, è una riflessione sulle possibilità che ti leva l’essere al mondo, per l’essere venuto al mondo a quel modo. E d’altra parte la costruzione dei personaggi non è da meno. Nessun personaggio vive a due dimensioni: c’è chi dà fuoco alle cose, chi tradisce, chi rifà la casa per farsi l’architetto, chi è troppo ubriaco per capire. Tutti disfano. Ardentemente.
“Non dimentichiamo l’energia”E’ l’inizio del discorso della 45° riunione degli allievi della scuola che Nathan Zuckerman, lo scrittore fittizio del romanzo, non tenne mai. È la riflessione che chi legga Pastorale Americana si porta dietro. L’energia che si respira tra quelle pagine sarebbe necessaria a far bruciare non un supermercato, ma un intero continente. È una scrittura precisa, affilata, arrabbiata, una scrittura che non si dà pace, di un uomo che non capisce.
Ma Pastorale Americana è un libro che non ti spiegaÈ come tutti i migliori libri: non ti spiega, ti racconta e basta. Entra in una vicenda, ne accarezza i protagonisti, accenna, e poi ti ci butta a capofitto, ti fa sguazzare nelle ragioni e nelle storie personali. C’impiega quasi 500 pagine, Roth, a spiegarsi il perché. Il romanzo, però si chiude con l’unico finale che un essere umano possa concepire: una domanda.
Finalmente torna in libreria Di cosa parliamo quando parliamo d’amore di Raymond Carver, per anni scomparso dagli scaffali e praticamente introvabile. La casa editrice Einaudi sta ristampando tutto Carver e questo libro in particolare è molto significativo.
La vicenda è abbastanza nota. È la storia di come il ‘minimalismo’ sia nato a tavolino. Una storia di esemplare editing letterario da una parte e un dramma umano dall’altra.
Da una parte Gordon Lish, editor della casa editrice Knopf, che riceve nel 1980 i racconti di Raymond Carver per revisionarli in vista della pubblicazione. Quest’ultimo sta uscendo da un periodo negativo e dall’alcolismo. Per lui questi racconti rappresentano una resurrezione. D’altra parte la revisione di Lish risulterà talmente radicale da destabilizzare per sempre Carver. Così nasce il minimalismo e finisce l’uomo.
Da una parte c’è un uomo pragmatico. Gordon Lish costruisce, con questa violenta azione editoriale, il ‘minimalismo’ dalla sua scrivania di potente editor. Taglia in alcuni racconti oltre il 50% del testo (in altri il 70%) in due fasi di correzione, di cui la seconda revisione risulta la più radicale.
Dall’altra parte di questa singolar tenzone, c’è il dramma umano di Raymond Carver. Proviamo a ricostruirlo attraverso alcuni brani estrapolati dalle lettere che lo scrittore scrisse al suo editor:
10 maggio 1980
Cristo santo, non ti far scrupolo di darci sotto con la matita sui racconti se serve a migliorarli; e se c’è qualcuno che può farlo sei solo tu. Voglio che i racconti siano i migliori possibili e che durino nel tempo. Non ho mai immaginato di arricchirmi o di guadagnarmi da vivere scrivendo poesie e racconti. Sai bene che il fatto che Knopf pubblichi un mio libro e che tu sia il mio editor per me è già abbastanza. Quindi dai pure gas e procedi a tutta birra.
8 luglio 1980
Dio mio, hai reso migliori tanti di questi racconti solo con una revisione leggera e qualche piccolo taglio. Ma per gli altri, per quegli altri tre [si riferisce ai racconti Se così ti piace, Una cosa piccola ma buona e Principianti], mi sa proprio che corro il rischio di tirare le cuoia se escono così. Anche se fossero più vicini a essere dei capolavori degli originali e la gente li leggesse ancora tra 50 anni, sarebbero lo stesso in grado di accelerare la mia dipartita, dico sul serio, tanto sono intimamente connessi alla mia guarigione, al mio recupero, al riconquistarmi quel minimo di autostima e senso di dignità come scrittore e come persona.
14 luglio 1980
Eccoti le mie ultime parole sull’argomento: ti prego di dare un’occhiata ai suggerimenti che ho inserito a matita e di prenderli sul serio, anche se alla fine dovessi decidere diversamente; se pensi che io sia il peggior nemico di me stesso, sai bene che c’è, be’, allora insisti con la versione finale della seconda revisione. Però, mi raccomando, daccela una terza o quarta occhiata. Il mio timore più grande è, o forse era, che siano tagliati troppo a corto.
Infinei racconti escono nell’aprile del 1981 nella ‘versione Lish’, completamente mutilati, ma utili per lanciare la scatola perfetta e ben confezionata del ‘minimalismo’ estremo sul mercato editoriale e facendo di Carver il cantore di questo nuovo stile e il re indiscusso della short story. Infine ecco cosa scrive Carver a Lish alla consegna dei racconti che costituiranno il nucleo centrale di Cattedrale.
11 agosto 1982
Perdonami, però stammi bene a sentire. Voglio dirti che, nonostante tutto e a dispetto di tutto, ho scritto racconti dal primo momento in cui sono atterrato in questo angolo boscoso quaggiù. Ho scritto come se ne andasse della mia vita e come se non ci fosse domani. E sappiamo entrambi che la prima cosa è vera e la seconda è una possibilità sempre aperta. Però, una cosa è sicura: i racconti di questa raccolta saranno più pienidi quelli dei libri precedenti. E questa, Cristo santo, è una cosa buona. Però so che tra questi 14 o 15 racconti che ti darò ce ne sono alcuni che ti faranno arricciare il naso, che non coincideranno con l’idea che la gente se è fatta di come deve essere un racconto di Carver – e per gente intendo te, me, i lettori in genere, i critici. Comunque, io sono loro, non sono noi, sono io. Può darsi che alcuni di questi racconti non si adattino facilmente a starsene allineati in fila con gli altri, è inevitabile. Però, Gordon, giuro su Dio e tanto vale che te lo dica subito, non posso subire l’amputazione e il trapianto che in un modo o nell’altro servirebbero a farli entrare nella scatola, di modo che il coperchio chiuda bene. Può darsi che qualche braccio o qualche gamba, qualche ciuffo di capelli, debbano spuntar fuori. Il mio cuore non può accettare alternative. Scoppierebbe, sul serio. Carissimo amico, fratello, sai cosa voglio dire e io so che capirai. Anche se penserai che ho torto marcio…
Infine rimane ad aleggiare un quesito. Meglio i racconti originali di Carver, ristampati come Principianti(dal celebre passaggio: «Ma, secondo me, siamo tutti nient’altro che principianti, in fatto d’amore») o il precedente Di cosa parliamo quando parliamo d’amore?
Raymond Carver
Nel secondo i dialoghi sono sfoltiti e alcuni personaggi vengono addirittura zittiti dalle forbici di Gordon Lish. I protagonisti sono uomini e donne senza passato e senza sogni, colpevoli senza movente che si ritrovano inmedia res, come sonnambuli che sorprendano se stessi nell’atto inconsapevole di agire. Fantocci senza quel passato che Carver aveva invece immaginato e raccontato.
Lo stesso Carver in un’altra lettera, sempre rivolgendosi a Lish, sottolinea come alcuni passaggi revisionati risultassero assurdi: «Comunque, ci tengo molto che alcune delle cose tagliate vengano rimesse nei racconti definitivi. In Gazebo, per esempio. “Anche stavolta aveva ragione lei”. Un finale così è di gran lunga migliore e dà al racconto la giusta chiusa, quella che ci vuole, con il senso di perdita del narratore e un finale tagliente e perfetto per il racconto. Altrimenti, il narratore viene fuori come uno zoticone, un figlio di puttana, completamente insensibile alle cose che ci è andato raccontando. Altrimenti, perché disturbarsi a raccontarla, la storia, mi chiedo».
Gordon Lish
Secondo Philip Roth: «Timbro, ritmo, costruzione, tono, atmosfera, equilibrio, lessico, varietà, ripetizioni: nella versione originale di Principianti ogni cosa è perfettamente ponderata ed eseguita. Mai opera narrativa ebbe meno bisogno di revisioni».
Secondo Jay McInerney: «Scoprire la narrativa di Carver agli inizi degli anni Settanta fu un’esperienza che trasformò parecchi scrittori della mia generazione, un’esperienza paragonabile forse alla scoperta di Hemingway negli anni Venti. In effetti il linguaggio di Carver era inequivocabilmente simile a quello di Hemingway».
Forse qualche racconto è migliore nella ‘versione Lish’, qualche altro sarà meglio nell’originale. Non resta che prendere le due versioni dello stesso libro: Principianti e Di cosa parliamo quando parliamo d’amore e confrontare i due testi, leggendo prima un racconto e poi la sua presunta nemesi, solo così ci si può fare un’idea e rispondere al quesito iniziale: fu efferato delitto letterario o legittima revisione editoriale? Ai lettori l’ardua, definitiva sentenza.
Raymond Carver Di cosa parliamo quando parliamo d’amore What we talk about when we talk about love?
Traduzione di Riccardo Duranti
Einaudi, 2015
Nella cittadina di Holt, in Colorado, Dad Lewis affronta la sua ultima estate: la moglie Mary e la figlia Lorraine gli sono amorevolmente accanto, mentre gli amici si alternano nel dare omaggio a una figura rispettata della comunità. Ma nel passato di Dad si nascondono fantasmi: il figlio Frank, che è fuggito di casa per mai più tornare, e il commesso del negozio di ferramenta, che aveva tradito la sua fiducia. Nella casa accanto, una ragazzina orfana viene a vivere dalla nonna, e in paese arriva il reverendo Lyle, che predica con passione la verità e la non violenza e porta con sé un segreto. Nella piccola e solida comunità abituata a espellere da sé tutto ciò che non è conforme, Dad non sarà l'unico a dover fare i conti con la vera natura del rimpianto, della vergogna, della dignità e dell'amore. Kent Haruf affronta i temi delle relazioni umane e delle scelte morali estreme con delicatezza, senza mai alzare la voce, intrattenendo una conversazione intima con il lettore che ha il tocco della poesia.
Kent Haruf pulled a wool cap over his eyes when he sat down at his manual typewriter each morning so he could “write blind,” fully immersing himself in the fictitious small town in eastern Colorado where he set a series of quiet, acclaimed novels, including “Plainsong,” a 1999 best seller. Mr. Haruf often wrote a chapter a day, most recently in a prefabricated shed in the backyard of his home in Salida, Colo., where he died on Sunday at 71.
Punctuation, capitalization, paragraphs — they waited for the second draft. The first draft usually came quickly, a stream of imagery and dialogue that ran to the margins, single-spaced.
The ring of the return oriented him, as did the world he saw in his mind’s eye: the community he called Holt, a composite of towns in Colorado where he had lived as a boy. His father was a Methodist minister, and the family moved often.
“Plainsong” describes the interlocking lives of several families: aging brothers, a pregnant teenager they take in, young boys whose mother suffers from depression. It was the first book he wrote using his distinctive regimen — he produced much of it in the summers while he taught at Southern Illinois University in Carbondale — and he spent six years writing it. Critics praised his spare sentences and the depth and believability of his characters and their circumstances. Writing in Newsweek, Jeff Giles called the book “a moving look at our capacity for both pointless cruelty and simple decency, our ability to walk out of the wreckage of one family and build a stronger one where it used to stand.”
Ho cominciato a scrivere Le otto montagne
un giorno di giugno del 2014, scendendo con il mio amico montanaro per
una gola che chiamano Vallone della Forca. È un toponimo comune sulle
Alpi: la forca o forcella è un passo particolarmente angusto, che noi
avevamo appena superato per buttarci giù dall'altra parte. Ci lasciavamo
alle spalle un posto a cui, per motivi diversi, siamo entrambi legati.
Un sentiero interrotto da una frana, una conca in cui raramente
s'incontra qualcuno, un grande lago dall'aria cupa, gli ultimi boschi,
ruderi, pietraie. Il posto che poi è al centro di questo romanzo che ho
scritto. Camminando io e il mio amico non parliamo molto, però ci piace
ogni tanto indicare le cose e condividere con l'altro i ricordi che alle
cose sono legati. Su quel sentiero c'è la baita col tetto di lamiera
dove io ho passato una notte, anni fa, senza chiudere occhio sotto il
temporale, e poco dopo l'alpeggio in cui la mamma del mio amico saliva
da bambina, in groppa a un mulo che ragliava alla luna. C'è il punto in
cui lui ha bivaccato in primavera, illudendosi di passare una notte
romantica con la sua futura moglie furibonda, e quello in cui io a
dodici anni ho piantato la tenda con mio padre, dopo aver fatto il bagno
nel lago e cantato davanti al fuoco. Queste storie le conosciamo già,
ce le siamo raccontate tante volte, ma camminando per quei posti non è
noioso riascoltarle, è come veder riaffiorare nell'altro i ricordi e si è
contenti di essere lì mentre succede, onorati di venire accolti in quel
luogo così privato. Noi due ci stupiamo sempre di aver condiviso gli
stessi sentieri in una vita precedente, ed è probabile che una volta o
l'altra ci siamo pure incontrati - io un bambino di città che camminava
davanti a suo padre, lui un ragazzo di montagna scontroso e solitario -
senza poter immaginare che in un futuro lontano vent'anni saremmo
diventati amici. Queste sono le cose che di solito ci diciamo, e ce le
saremo ripetute anche quella mattina di giugno.
Poi
avevamo superato il colle, la forca. Ecco un'altra sensazione che mi
piace tanto in montagna: quegli ultimi metri prima dello spartiacque, il
senso improvviso di apertura, il momento in cui puoi guardare di là e
di colpo ti si stende davanti un mondo nuovo. Nessuno di noi due si era
mai spinto in quel vallone. Non avevamo più racconti di là, niente più
ricordi, niente più malinconia: prendevano il loro posto l'allegria
della discesa e l'ebbrezza dell'esplorazione. L'altro versante era tutto
diverso dal nostro, una gola sassosa che precipitava verso il
fondovalle. In inverno aveva nevicato parecchio, così nel tratto più
alto, anche se ormai era estate, ci buttammo giù scivolando per i nevai
ghiacciati, il mio amico con la sua tecnica della raspa che più tardi
gli sarebbe costata una caviglia, io a balzi perché non so sciare. In
basso poi la neve finiva e cominciava un bosco secco, di larice e pino
silvestre, con un sottobosco di erbe alte in cui il sentiero spesso si
perdeva. Ma a noi piace quando in montagna si perde il sentiero, e te ne
devi inventare uno. E a me personalmente piace essere quello che lo
inventa, ma anche essere quello che segue l'inventore. Quella volta il
mio amico andava avanti e io ero contento di seguire i percorsi
tracciati da lui, perché dovevo pensare.
Ecco
a cosa stavo pensando: da tempo volevo scrivere una storia di montagna,
di padri e figli e di amicizia maschile. Credo di avere appena spiegato
perché questi temi nella mia testa sono tanto legati tra loro. Sapevo
che ci sarebbe stata una montagna intorno alla mia storia, un padre
all'inizio di tutto, e due amici al centro; e sapevo che il suo respiro
sarebbe stato più ampio del solito, per i modelli che avevo in mente e
per la scrittura che volevo ottenere. Ero in cerca del mio Due di due e del mio Narciso e Boccadoro, del mio In mezzo scorre il fiume e del mio Gente del Wyoming.
E quel giorno, nel Vallone della Forca, andando dietro al mio amico
fuori dal sentiero, mi ricordo di aver pensato: ma ce l'hai già, questa
storia, è tutta qui, non la vedi? La devi solo raccontare. Hai i
personaggi, i ricordi, i luoghi, non ti resta che mettere insieme i
pezzi e trovare le parole. Soprattutto hai la cosa più importante, e
cioè il sentire che questa storia è viva dentro di te, è vera, ti
accompagna da sempre, e adesso che l'hai vista non puoi più pensare ad
altro che a scriverla. Vai a casa e comincia. Di colpo c'ero già dentro
fino al collo.
Poi
me la sono presa comoda, perché ci ho messo due anni. Fosse stato per
me, ne avrei impiegati anche tre o quattro. Io sarei come quei pittori
che la mattina si alzano, si stiracchiano, guardano il quadro per un'ora
o due, poi danno una pennellata e la giornata di lavoro è finita. Ma
per fortuna con il lavoro bisogna anche guadagnarsi da vivere: dico che è
una fortuna perché, per quelli come me, il morso della vita alle
chiappe della scrittura fa un gran bene, aiuta a non stare troppo comodi
e a non perdersi nei propri vizi. Ci ho messo due anni ma avrebbero
potuto essere pochi mesi. Ho idea che non sarebbe cambiato nulla: questa
storia è uscita così com'è, non ho riscritto quasi niente, non ho fatto
prove ed errori, non ho buttato pagine su pagine, non mi sono mai
sentito in crisi per non sapere dove andare, e a metà del lavoro ho
addirittura abbandonato i miei amati quaderni perché non servivano più,
potevo scrivere direttamente in bella. È una sensazione magnifica quando
succede così. La scrittura esce dalle mani e non hai che da seguire la
storia fino alla fine. Mi ricordo i giorni in cui scrivevo l'ultimo
capitolo, di nuovo in giugno, lavorando per ore come non mi era mai
successo, sentendo che non potevo permettermi di fermarmi, aspettare,
perdere tempo, perdere il ritmo: uscivo a camminare, tornavo a casa e mi
rimettevo a scrivere. Sono arrivato all'ultima frase negli stessi
giorni dell'anno, dentro la stessa baita, sullo stesso tavolo dove avevo
scritto la prima. Così come avevo pensato comincia!, ho pensato: ho finito. E adesso è questo libro che esce oggi. Non so se mi ricapiterà mai, è stata una gran bella avventura.
Ne “L’arte della gioia” Goliarda Sapienza dipinge l’affresco di una
donna libera e liberata dai vincoli dei pregiudizi, delle aspettative
per noi e per chi amiamo, dai legami soffocanti che chiamiamo amore. E’
un libro molto fisico, centrato com’è sulla natura e il corpo. Fisico è
il rapporto di Modesta, la protagonista, tosta carusa, con le idee che
mai diventano ideologia, ma cibo della e per la mente. Che si tratti di
politica o di poesia l’importante è allargare la mente, spaziare in
mondi nuovi, inoltrarsi nel magma confuso e molteplice che la circonda e
trovare il modo di respirare un’aria sempre nuova. Si può dire
anarchica o socialista rivoluzionaria, se non altro per il percorso
esistenziale e politico che attraversa la sua vita, ma si rischia di
ingabbiarla dentro a una categoria, ad attaccarle delle etichette, che
sono il contrario del suo modo libero di vivere.
Dalla cella del convento in cui passa la sua fanciullezza alle stanze
infinite e, per lei, di ineguagliabile bellezza, del Carmelo, da tutti i
personaggi più forti sa trarre lezione e, impudicamente, si serve. Dai
favoritismi di madre Leonora ai modi prepotenti ma sottilmente
perspicaci della principessa Gaia, Modesta guarda e apprende. E sfrutta
abilmente le situazioni per dare soddisfazione alla sua brama di sapere:
tutto vuole conoscere, per sete di apprendere, perché la sua mente non
vuole porsi limiti e non per imporsi sugli altri o gareggiare. Anzi,
tutto è finalizzato alla passione di confrontarsi con gli altri e così
ampliare il proprio orizzonte. Mai porsi limiti, sempre andare oltre. E
questo sembra essere il principio a cui si ispira la sua vita che ha
attraversato gli anni cruciali del Novecento essendo nata il primo
gennaio del millenovecento. Attraverso i suoi occhi la storia, personale
e politica, è un intersecarsi di passioni perché il sacro fuoco della
passione fa ardere Modesta e le dà coraggio, ottimismo, capacità di
amare, gioia. E’ la passione che passa attraverso i sensi, il corpo, il
suo motore ma che non degenera mai, non prende il sopravvento sulla
comprensione e la consapevolezza di ciò che accade.
Infine, l’inanellarsi delle vicende va letto e non raccontato, col cuore
sgombro, se possibile, di pregiudizi, e pronto a stupirsi di gioia.