Ho cominciato a scrivere Le otto montagne
un giorno di giugno del 2014, scendendo con il mio amico montanaro per
una gola che chiamano Vallone della Forca. È un toponimo comune sulle
Alpi: la forca o forcella è un passo particolarmente angusto, che noi
avevamo appena superato per buttarci giù dall'altra parte. Ci lasciavamo
alle spalle un posto a cui, per motivi diversi, siamo entrambi legati.
Un sentiero interrotto da una frana, una conca in cui raramente
s'incontra qualcuno, un grande lago dall'aria cupa, gli ultimi boschi,
ruderi, pietraie. Il posto che poi è al centro di questo romanzo che ho
scritto. Camminando io e il mio amico non parliamo molto, però ci piace
ogni tanto indicare le cose e condividere con l'altro i ricordi che alle
cose sono legati. Su quel sentiero c'è la baita col tetto di lamiera
dove io ho passato una notte, anni fa, senza chiudere occhio sotto il
temporale, e poco dopo l'alpeggio in cui la mamma del mio amico saliva
da bambina, in groppa a un mulo che ragliava alla luna. C'è il punto in
cui lui ha bivaccato in primavera, illudendosi di passare una notte
romantica con la sua futura moglie furibonda, e quello in cui io a
dodici anni ho piantato la tenda con mio padre, dopo aver fatto il bagno
nel lago e cantato davanti al fuoco. Queste storie le conosciamo già,
ce le siamo raccontate tante volte, ma camminando per quei posti non è
noioso riascoltarle, è come veder riaffiorare nell'altro i ricordi e si è
contenti di essere lì mentre succede, onorati di venire accolti in quel
luogo così privato. Noi due ci stupiamo sempre di aver condiviso gli
stessi sentieri in una vita precedente, ed è probabile che una volta o
l'altra ci siamo pure incontrati - io un bambino di città che camminava
davanti a suo padre, lui un ragazzo di montagna scontroso e solitario -
senza poter immaginare che in un futuro lontano vent'anni saremmo
diventati amici. Queste sono le cose che di solito ci diciamo, e ce le
saremo ripetute anche quella mattina di giugno.
Poi
avevamo superato il colle, la forca. Ecco un'altra sensazione che mi
piace tanto in montagna: quegli ultimi metri prima dello spartiacque, il
senso improvviso di apertura, il momento in cui puoi guardare di là e
di colpo ti si stende davanti un mondo nuovo. Nessuno di noi due si era
mai spinto in quel vallone. Non avevamo più racconti di là, niente più
ricordi, niente più malinconia: prendevano il loro posto l'allegria
della discesa e l'ebbrezza dell'esplorazione. L'altro versante era tutto
diverso dal nostro, una gola sassosa che precipitava verso il
fondovalle. In inverno aveva nevicato parecchio, così nel tratto più
alto, anche se ormai era estate, ci buttammo giù scivolando per i nevai
ghiacciati, il mio amico con la sua tecnica della raspa che più tardi
gli sarebbe costata una caviglia, io a balzi perché non so sciare. In
basso poi la neve finiva e cominciava un bosco secco, di larice e pino
silvestre, con un sottobosco di erbe alte in cui il sentiero spesso si
perdeva. Ma a noi piace quando in montagna si perde il sentiero, e te ne
devi inventare uno. E a me personalmente piace essere quello che lo
inventa, ma anche essere quello che segue l'inventore. Quella volta il
mio amico andava avanti e io ero contento di seguire i percorsi
tracciati da lui, perché dovevo pensare.
Ecco
a cosa stavo pensando: da tempo volevo scrivere una storia di montagna,
di padri e figli e di amicizia maschile. Credo di avere appena spiegato
perché questi temi nella mia testa sono tanto legati tra loro. Sapevo
che ci sarebbe stata una montagna intorno alla mia storia, un padre
all'inizio di tutto, e due amici al centro; e sapevo che il suo respiro
sarebbe stato più ampio del solito, per i modelli che avevo in mente e
per la scrittura che volevo ottenere. Ero in cerca del mio Due di due e del mio Narciso e Boccadoro, del mio In mezzo scorre il fiume e del mio Gente del Wyoming.
E quel giorno, nel Vallone della Forca, andando dietro al mio amico
fuori dal sentiero, mi ricordo di aver pensato: ma ce l'hai già, questa
storia, è tutta qui, non la vedi? La devi solo raccontare. Hai i
personaggi, i ricordi, i luoghi, non ti resta che mettere insieme i
pezzi e trovare le parole. Soprattutto hai la cosa più importante, e
cioè il sentire che questa storia è viva dentro di te, è vera, ti
accompagna da sempre, e adesso che l'hai vista non puoi più pensare ad
altro che a scriverla. Vai a casa e comincia. Di colpo c'ero già dentro
fino al collo.
Poi
me la sono presa comoda, perché ci ho messo due anni. Fosse stato per
me, ne avrei impiegati anche tre o quattro. Io sarei come quei pittori
che la mattina si alzano, si stiracchiano, guardano il quadro per un'ora
o due, poi danno una pennellata e la giornata di lavoro è finita. Ma
per fortuna con il lavoro bisogna anche guadagnarsi da vivere: dico che è
una fortuna perché, per quelli come me, il morso della vita alle
chiappe della scrittura fa un gran bene, aiuta a non stare troppo comodi
e a non perdersi nei propri vizi. Ci ho messo due anni ma avrebbero
potuto essere pochi mesi. Ho idea che non sarebbe cambiato nulla: questa
storia è uscita così com'è, non ho riscritto quasi niente, non ho fatto
prove ed errori, non ho buttato pagine su pagine, non mi sono mai
sentito in crisi per non sapere dove andare, e a metà del lavoro ho
addirittura abbandonato i miei amati quaderni perché non servivano più,
potevo scrivere direttamente in bella. È una sensazione magnifica quando
succede così. La scrittura esce dalle mani e non hai che da seguire la
storia fino alla fine. Mi ricordo i giorni in cui scrivevo l'ultimo
capitolo, di nuovo in giugno, lavorando per ore come non mi era mai
successo, sentendo che non potevo permettermi di fermarmi, aspettare,
perdere tempo, perdere il ritmo: uscivo a camminare, tornavo a casa e mi
rimettevo a scrivere. Sono arrivato all'ultima frase negli stessi
giorni dell'anno, dentro la stessa baita, sullo stesso tavolo dove avevo
scritto la prima. Così come avevo pensato comincia!, ho pensato: ho finito. E adesso è questo libro che esce oggi. Non so se mi ricapiterà mai, è stata una gran bella avventura.