Dopo la Trilogia della Pianura
, Fabio Cremonesi ha tradotto anche l’ultima opera di Kent Haruf, Le nostre anime di notte,
che ha subito raggiunto la vetta delle classifiche di vendita,
confermando l’autore statunitense come uno dei più apprezzati del
catalogo di NN Editore tra i lettori italiani.
Le nostre anime di notte
, pubblicato postumo, ha ancora una
volta come sfondo la piccola cittadina di Holt, che in questo romanzo ha
un ruolo tutt’altro che secondario: la sua comunità giudica e biasima
la relazione tra i due anziani protagonisti, Addie e Louis, rimasti
entrambi vedovi e determinati ad “attraversare la notte insieme”, per lo
meno finché sarà loro possibile. La scrittura di Haruf diventa qui
ancora più intima, emozionale, ma anche “urgente”, come sottolinea nella
nota conclusiva Cremonesi (qui di seguito intervistato).
Sei stato tu a proporre a NN Editore la traduzione delle
opere di Kent Haruf o è stata la casa editrice ad affidartela? Com’è
stato il tuo primo approccio con questo scrittore?
No, è stata l’editrice, Chicca Dubini – che l’aveva ricevuto da
un agente – a darmelo da leggere per una valutazione. È stato un
autentico colpo di fulmine, sia per me, sia per Chicca e per Gaia
Mazzolini, l’allora caporedattrice prematuramente scomparsa. L’ho letto
tutto d’un fiato, cosa insolita per un lettore lento come me, anche
perché mi pareva un miracolo che un gioiello simile non fosse già stato
acquisito da altri editori e mi pareva urgente tentare di prenderlo noi!
Nella nota finale, scrivi: “Mentre leggevo Le nostre anime di notte
continuavo a pensare all’autore, quest’uomo anziano e malato che lotta
contro il tempo per riuscire a raccontare tutta la storia che ha
dentro”. Il senso di urgenza e il delicato sentimentalismo di questo
romanzo secondo te si devono dunque alla particolare condizione in cui è
stato scritto?
Verso la fine del libro c’è una scena molto divertente in cui Addie e Louis parlano di uno spettacolo teatrale tratto da
Canto della pianura.
Addie chiede a Louis: “Potrebbe scrivere un libro su di noi. Ti
piacerebbe?”. La risposta di Louis, che in quel momento è chiaramente un
alter-ego dell’autore, è disarmante: “Non mi va di finire in un libro”.
Questo è un uomo che sa di avere ancora poche settimane di vita e che
anziché cedere alla disperazione e sedersi in veranda ad aspettare la
morte, fa una cosa che non ha mai fatto prima: scrivere un libro in
pochi mesi, anziché in cinque o sei anni, come aveva sempre fatto con
gli altri romanzi. E in questo libro il tempo non è più quello ciclico,
legato al susseguirsi delle stagioni, delle sue opere precedenti, ma è
un tempo lineare, vettoriale oserei dire: una freccia che va in una
direzione ben precisa. E il cuore di quest’ultima opera è un messaggio
chiaro, semplice, emozionante: datevi, diamoci sempre un’altra chance;
non importa come andrà a finire, anzi, sappiamo già che probabilmente
andrà a finire male, ma diamoci comunque un’altra chance.
Immaginavi che le opere di Kent Haruf potessero riscuotere un
tale successo tra i lettori italiani? Secondo te cosa lo ha
determinato?
Be’, francamente direi che era impossibile prevedere un
successo del genere, tanto che, a parte un timido tentativo di Rizzoli
con Haruf nel 2000, nessun altro editore aveva creduto in questo autore.
Ci sono tanti fattori che hanno determinato questo successo, di natura
commerciale da una parte, di mutati gusti dei lettori dall’altra.
Commercialmente parlando i tempi erano maturi per una sorta di riscossa
delle librerie indipendenti, dopo gli anni della crisi, dei grandi
cambiamenti nel mercato determinati dal consolidamento delle catene di
librerie, dalla nascita di colossi della vendita online, dalla crisi,
tutti fattori che se da una parte hanno portato alla chiusura di
moltissime librerie indipendenti, dall’altra parte, in modo un po’
inatteso, hanno aperto nuovi spazi di mercato per una generazione di
librai che hanno saputo abbandonare l’idea di libreria generalista, in
balia delle novità, per concentrarsi su un lavoro di proposta: sono
librai che non fanno i magazzinieri (decine di scatoloni di novità da
esporre ogni giorno, a cui corrispondono decine di scatoloni di resi per
fare spazio in negozio), ma selezionano per i propri clienti,
costruendo con loro un rapporto di fiducia e in questo modo (scusate il
termine orribile) li fidelizzano. Ecco, in questo mutato contesto di
mercato, Haruf è diventato il libro giusto al momento giusto per
suggellare questo patto di fiducia tra “nuovi” librai e lettori forti e
fedeli alla “loro” libreria. I librai l’hanno adottato quasi
immediatamente, l’hanno proposto direttamente o attraverso i gruppi di
lettura, hanno consolidato una relazione forte con un grosso numero di
lettori soddisfatti, spesso anche gratificati per essersi sentiti parte
della pattuglia dei “pionieri” di Holt, hanno –
last but not least – ottenuto fatturati interessanti grazie ad Haruf.
E veniamo ora al punto di vista dei lettori: la cosa stupefacente è che
Haruf sembra piacere a tutti, giovani e anziani, donne e uomini, lettori
occasionali e raffinai critici. Questo secondo me avviene (l’ho già
detto in diverse occasioni) perché Haruf affronta apertamente le grandi
questioni dell’esistenza, quelle con l’iniziale maiuscola – l’amore che
nasce e che si spegne, le relazioni famigliari, la morte (la propria e
quella di una persona cara) – intercettando un bisogno a quanto pare
molto diffuso tra i lettori, dopo gli anni dell’ironia, del cinismo, del
disincanto. E lo fa in un modo che è tutto tranne che consolatorio:
alla fine dei romanzi di Haruf i cattivi non vanno all’inferno, i buoni
non vanno in paradiso; a Holt il prezzo delle proprie scelte, giuste o
sbagliate che siano, si paga qui e ora.
Dagli
studi in storia dell’arte medievale, alla direzione di una
multinazionale delle telecomunicazioni e infine all’editoria e alle
traduzioni: il tuo è un percorso professionale piuttosto insolito, ti va
di raccontarlo?
Giusto per inserirmi in una polemica recente, dico subito che
non ho mai mandato un cv e non ho mai giocato a calcetto in vita mia! Ho
studiato all’università di Pavia, per mantenermi agli studi ho sempre
lavorato, prima come fattorino, poi come cameriere. Il mio primo lavoro
stabile è stato come scaricatore in un corriere, poi c’è stato il call
centre di una compagnia assicurativa, da lì ho fatto lo startup di
Omnitel, dove sono rimasto dodici anni facendo una discreta carriera
internazionale. A quel punto avevo messo un po’ di fieno in cascina che
mi ha consentito di fare il salto nel mondo dell’editoria. Ho fondato
una casa editrice, Gran Vía, che poi ho venduto; ho iniziato a tradurre
quasi per caso, prima di scoprire che era la cosa che mi piaceva davvero
fare, nel frattempo ho fatto per quattro anni il promotore editoriale
(quello che vende i libri ai librai, per capirci: da qui la mia
attenzione per il ruolo delle librerie), un po’ per sbarcare il lunario,
un po’ perché mi pareva che fare il traduttore a tempo pieno rischiasse
di “inselvatichirmi” troppo. Professionalmente parlando mi ritengo una
persona molto fortunata e se dovessi ricominciare da capo, rifarei ogni
singolo lavoro che ho fatto.
Oltre che per NN, hai tradotto diverse opere anche per
Castelvecchi, Gran Vía, Keller, Marsilio, Zandonai: come si è instaurata
la tua collaborazione con queste case editrici?
Ehi, c’è pure Adelphi! Come dicevo prima, non ho mai mandato un
curriculum: la maggior parte dei contatti sono nati ai tempi in cui
facevo l’editore, ma molte sono state anche le amicizie personali da cui
sono nati rapporti professionali: lo dico senza imbarazzo, non credo di
aver rubato il lavoro a nessuno, penso che la qualità del mio lavoro
sia lì a dimostrarlo nel bene e nel male, visto che certe collaborazioni
si sono approfondite, mentre altre si sono bruscamente interrotte!
Si dibatte spesso sulla difficoltà dei traduttori italiani di
riscuotere i propri compensi: confermi? Riesci a vivere solo di
traduzioni?
Ho iniziato a tradurre nel 2006 e faccio questo lavoro
sistematicamente dal 2009. Oggi riesco a campare di sole traduzioni, ma
ci ho messo qualche anno, sia perché naturalmente ho dovuto imparare un
mestiere, anche a costo di accontentarmi di compensi che oggi
naturalmente non accetterei più, sia perché in passato ho avuto diversi
clienti che erano cattivi pagatori (qualcuno è poi fallito senza
pagarmi, con altri ho dovuto mettere in mezzo un avvocato). L’anno della
svolta per me è stato il 2014: mi sono detto che i clienti che non
pagano non sono clienti e ne ho lasciato perdere qualcuno, la cosa ha
funzionato, anche perché banalmente se lasci perdere i clienti cattivi
hai più tempo da dedicare a quelli buoni!
Tra i romanzi pubblicati negli ultimi mesi, di quali ti sarebbe piaciuto occuparti? Hai altre opere in traduzione al momento?
Per carità, no! Nel 2016 ho tradotto sei romanzi, basta così.
Scherzi a parte, purtroppo leggo molto meno di quanto vorrei (dopo dieci
ore passate a tradurre, ho solo voglia di uscire, vedere gente, andare a
sentire della musica: è uno dei paradossi del lavoro editoriale) e
quindi non saprei se c’è qualcosa che mi sarebbe piaciuto tradurre. Al
momento comunque sono molto soddisfatto perché sto traducendo un
memoir di Jenny Diski, straordinaria scrittrice inglese quasi sconosciuta in Italia, nonché quasi-figlia adottiva di Doris Lessing.