lunedì 25 novembre 2019

10 DICEMBRE - ADDIO FANTASMI DI NADIA TERRANOVA

strakkino.com/it

"Addio Fantasmi", Nadia Terranova alla libreria Laformadelibro il 6 dicembre 2018 Eventi a Padova
Una casa tra due mari, il luogo del ritorno. Dentro quelle stanze si è incagliata l’esistenza di una donna. Che solo riattraversando la propria storia potrà davvero liberarsene. Nadia Terranova racconta l’ossessione di una perdita, quel corpo a corpo con il passato che ci rende tutti dei sopravvissuti, ciascuno alla propria battaglia

lunedì 21 ottobre 2019

VIAGGIO LETTERARIO - BUDAPEST - DAL 26 AL 29 OTTOBRE

Marta, Elena, Alessandra, Alessandra, Tiziana, Valentina, Antonia


Budapest, capitale d’Ungheria, spesso paragonata a Parigi per la sua magnificenza, per la somiglianza delle strade, forse per la rinomata “simpatia” dei cittadini (sens de l’humor! nrd), e per la vita che ruota intorno ad un fiume, il Danubio che divide Buda, la città storica, da Pest, la città nuova. Un dualismo “simbiotico” come ha detto qualcuno che accresce ancor di più l’unicità di questa meravigliosa città dell’Est, con i suoi decadenti palazzi, ma allo stesso tempo eleganti. La decadenza (quasi una vena nostalgica) tipica delle città dell’ex URSS si percepisce già perdendosi nell’ammirare i paesaggi della periferia durante il tragitto in pullman dall’aeroporto al centro città. Decadenza in “ripresa’”, tipica delle città di mitteleuropa d’influenza sovietica,  forse dovuta anche al fatto che è stata ricostruita quasi interamente dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Fino al Medioevo i due quartieri di Budapest erano città indipendenti, unite da ponti su chiatte solo d’estate. Oggigiorno collegate da spettacolari ponti, il più importante quello delle Catene, davvero suggestivo soprattutto se lo si attraversa di sera; la vista con i monumenti delle due parti della città illuminati è davvero d’effetto. Pest è la parte più giovane, sempre in movimento, negozi all’ultima moda, ristoranti, i famosi bar, le meravigliose pasticcerie (eh si,  i dolci ungheresi sono davvero degni di nota, basti pensare alla torta tipica, la Dobos, cinque strati di pan di spagna, cioccolato e copertura al caramello), l’imponente Parlamento, simbolo di questa città, che si affaccia sul fiume, lungo la passeggiata per arrivarci si possono ammirare, con tanta nostalgia, le scarpe sulla riva del Danubio, opera che ricorda la strage di cittadini ebrei durante la seconda guerra mondiale, che venivano fucilati e gettati nelle acque del fiume. Lo stesso senso d’imponenza che si prova dinnanzi il Parlamento, dovuto anche alla stessa altezza di edificio (intenta a ricreare il giusto equilibrio tra parte religiosa e parte politica della città) lo si prova anche ammirando la Basilica di Santo Stefano, che ospita la reliquia del Re/ Santo, fondatore dell’Ungheria.
Oltre alle vie dello shopping, proprio alla fine della strada più famosa, Vàci Utca, c’è il mercato centrale, il più grande mercato coperto d’Europa; costruzione enorme di mattoni rossi, con il tetto ricoperto di maioliche. Ci si perde tra i suoi banchi di souvenir e specialità tipiche come gli spiedini di salsiccia, pancetta e formaggio o il Làngos, tipica “frittella” con panna acida e formaggio , e sulla quale si possono aggiungere vari ingredienti, e all’interno del mercato si può trovare il più buono della città!
Il quartiere ebraico di Pest, tappa obbligatoria per tutti i turisti che visitano la bellissima capitale ungherese, ha come cuore la Grande Sinagoga di Via Dohàny, la più grande d’Europa e la seconda più grande al mondo, in stile neo-moresco. Fanno parte del complesso della Grande Sinagoga anche il Museo Ebraico, con una vasta collezione di reliquie, alcuni oggetti rituali e anche una sala dedicata all’Olocausto, il cimitero e l’ultimo elemento, l’albero della vita, quasi un memoriale somigliante ad un salice piangente sulle cui foglie sono iscritti i nomi delle vittime dell’olocausto.
Nel cuore di Buda, nella quale ci si arriva con una caratteristica funicolare, sembra di essere catapultati indietro nel tempo, infatti salendo lungo la Scalinata degli Asburgo ci si trova davanti al fulcro della storia di Ungheria: il Palazzo reale, poi più avantila Chiesa di San Mattia con le sue guglie gotiche e il corvo con l’anello d’oro simbolo reale, e il Bastione dei Pescatori, costruzione singolare  con sette torri bianche dalla quale dalle sue terrazze vi si trova una vista indimenticabile che è valsa ad ottenere il titolo di patrimonio dell’UNESCO.
La capitale dell’Ungheria ha la seconda metropolitana più antica del mondo e le stazioni sono vere e proprie opere d’arte ‘vintage’. Budapest è luogo di paradossi, capitalismo e comunismo, con le due sponde opposte del fiume, religioni a confronto, eleganza e degrado. Comprendere questa doppia anima è l’essenza del viaggio nella capitale ungherese.
Budapest, la capitale dell’Ungheria, è tagliata in due dal Danubio. Il Ponte delle Catene, del XIX secolo, congiunge la zona collinare di Buda a quella pianeggiante di Pest. Una funivia collega la collina del castello al centro storico di Buda, dove il Museo storico di Budapest ripercorre la storia della città a partire dall'epoca romana. La Piazza della Santa Trinità ospita la Chiesa di Mattia del XIII secolo e le torrette del Bastione dei Pescatori, che offrono ampi panorami.


Budapest è la Parigi dell’Est.
(Anonimo)
Angelo, scendi dalle stelle, vai a Budapest.
(Sándor Márai)
Budapest è la più bella città del Danubio; una sapiente auto-messinscena, come Vienna, ma con una robusta sostanza e una vitalità sconosciute alla rivale austriaca. Budapest dà la sensazione fisica della capitale, con una signorilità e un’imponenza da città protagonista della storia.
(Claudio Magris)
La Budapest moderna è una creazione recente, ben diversa dalla citta ottocentesca che, come scriveva Mikszath, negli anni quaranta del secolo scorso beveva vermut serbo e parlava tedesco.
(Claudio Magris)
Architettonicamente Budapest è un tesoro. Qui ci sono edifici in stile barocco, neoclassico, eclettico e art nouveau in abbondanza. Nel complesso, però, di Budapest emerge il carattere fin-de-siècle. È stato allora, nel suo periodo d’oro, che ha visto la luce gran parte di quello che si vede ora.
(Steve Fallon)
Splendida architettura, pregevole artigianato, terme e spa, e inoltre una città con la vita notturna tra le più interessanti d’Europa: ecco le principali attrattive dell’Ungheria e della sua capitale, Budapest.
(Steve Fallon)
Tra le città più sottovalutate d’Europa, Budapest può essere tanto impegnativa quanto affascinante.
(Rick Steves)
La cucina ungherese non è solo gulasch e si può anche dire che sia tra le più sofisticate d’Europa. Gli ungheresi sostengono persino che al mondo ci siano tre tipi di cucina: la francese, la cinese e l’ungherese.
(Steve Fallon)
Mentre a Buda si prova spesso la sensazione di trovarsi in un giardino, Pest è una giungla urbana, ricca di palazzi, musei, edifici storici e ampi viali che non hanno uguali sulla riva opposta del Danubio.
(Steve Fallon)
Da ogni parte la città mostra i segni della sua storia: l’epoca imperiale imprigionata tra le pietre del Castello di Buda, il comunismo rievocato dal recente Parco delle statue, il relax senza tempo che le sorgenti termali offrono dall’età romana alla nostra.
(Michele Monina)
Budapest è affollata di statue, in un bronzo che le rende più vive e drammatiche del marmo.
(Paolo Di Paolo)
La magnificenza metropolitana di Budapest,che si basa sulla solida realtà di una crescita politico-economica, presenta il volto di un seducente illusionismo, che l’arte fotografica di Gyorgy Klosz ha colto con magica lucidità. Se la Vienna moderna imita la Parigi del barone Haussmann, con i suoi grandi boulevards, Budapest imita a sua volta questa viennese urbanistica di riporto, è la mimesi di una mimesi. Forse anche per questo assomiglia alla poesia nell’accezione platonica, il suo paesaggio suggerisce, più che l’arte, il senso dell’arte.
(Claudio Magris)
Budapest è un luogo privilegiato per i sogni.
(M. John Harrison)
Il Danubio scorre grande, e il vento della sera passa sui caffè all’aperto come il respiro di una vecchia Europa che forse è ormai ai margini del mondo.
(Claudio Magris)
A Budapest si può avvertire questo senso di un Europa dopo lo spettacolo, ma essa non è, come Vienna, solo un palcoscenico della rimembranza di gloria passate, bensì anche una citta robusta e sanguigna.
(Claudio Magris)
Il non-stile degli edifici eclettici e storicizzanti di Budapest, pesanti e e spesso adorni di decorazioni grevi, sembra, a tratti, un bizzarro volto del futuro, quel paesaggio storicizzante e insieme avveniristico delle metropoli anticipate dai film di fantascienza come Blade Runner.
(Claudio Magris)
La cosa più bella di Pest è la vista su Buda.
(Proverbio)
Il Danubio scorre verboso sotto i ponti titanici.
(Endre Ady)
Si fece assai serio allora il vecchio Danubio,
il fiero e primaverile umore gli si freddò in gola.
Pareva come un genio avvinazzato,
a malapena mi guardava in faccia
ed io, duro, insistente gli chiedevo di confessare
(Endre Ady)
Il Danubio non è blu, come vogliono i versi di Karl Isidor Beck che hanno suggerito a Strauss il titolo seducente e menzognero del suo valzer. Il Danubio è biondo, «a szöke Duna», come dicono gli ungheresi, ma quel biondo è una galanteria magiara o francese. Più restrittivo Verne pensava di intitolare un suo romanzo Le beau Danube jeaune. Giallo fangoso, acqua che si intorbida.
(Claudio Magris)
Cosa sarebbe Budapest senza il Danubio? Una Parigi senza Senna
(Michele Monina)

giovedì 26 settembre 2019

LEONI DI SICILIA - STEFANIA AUCI - 19 NOVEMBRE


Presso "lo Scalo" Via XXV Aprile, 146, 16030 Pieve Ligure GE


I leoni di Sicilia” di Stefania Auci, più che un romanzo storico che delinea l’affermarsi di una famiglia borghese nella Sicilia di fine settecento, costituisce anche un interessante documento riguardo un progetto industriale di elevato profilo e di grande attualità, anche oggi a distanza di secoli dalla fine della dinastia industriale protagonista della saga. La capacità di Vincenzo Florio, autentico pioniere in quello che oggi definiremmo “settore agroalimentare” emerge nel dettagliato racconto dell’autrice che, con grande abilità ricostruttiva, delinea, passo dopo passo l’ascesa dell’intera famiglia, di umili origini e perdipiù straniera, le alleanze e l’affermazione sociale ed economica nella Sicilia preunitaria, crocevia di mercanti ed armatori, soprattutto inglesi, un territorio insomma percepito dai Florio come ricco di opportunità. Inquieto e spregiudicato, come tutti gli innovatori, Vincenzo Florio possedeva la capacità di intuire il nuovo e di assecondarlo, impegnandosi senza risparmio di energie per la realizzazione di progetti che rispetto all’epoca ad egli contemporanea, erano autenticamente “visionari”. Interessantissimo dunque il romanzo di Stefania Auci che oltre a contenere una ricostruzione storica accurata degli ambienti e dei personaggi narra in maniera vivace, l’evoluzione di un settore dell’economia siciliana, portato dai Florio al massimo della produttività, e tutto in un periodo di forte instabilità politica e di intensi conflitti sociali. L’autrice difatti evidenzia lo sviluppo dell’industria conserviera nell’isola, illustra le intuizioni del capofamiglia mirate al potenziamento delle tonnare nelle isole di Favignana e Formica e alla realizzazione di uno stabilimento industriale per la conservazione del tonno. Fu opera dei Florio l’instaurazione di un sistema di conservazione del tonno all’epoca pioneristico: la cottura e la successiva asciugatura in luogo dell’antico sistema di salatura e vendita in barili. E a parte le tonnare, il genio dei Florio si manifestò anche nella commercializzazione del marsala, altro successo per una impresa legata all’alimentazione e centrata sullo stretto rapporto tra uomo e territorio. L’autrice peraltro rifugge dai toni agiografici e pone nel dovuto rilievo accanto ai successi imprenditoriali dei Florio, i difetti caratteriali di ognuno, e soprattutto evidenzia le resistenze da parte della borghesia e dell’aristocrazia isolane nei riguardi di coloro che per lungo periodo vennero appellati come “facchini” o “bagnaroti calabresi”, sostanzialmente percepiti come avventurieri del continente sbarcati nella civilissima Palermo in cerca di fortuna. Trovano posto nel libro anche gli avvenimenti storici che fanno da sfondo all’ascesa della famiglia, questi ultimi, compiutamente illustrati dall’autrice in maniera puntigliosa e quasi cinematografica, consentono al lettore di immergersi nella rivolta di Palermo del 14 giugno 1820 e di assistere alle obbligate “doppiezze” dei rappresentanti di “Casa Florio” nei riguardi del potere. L’analisi psicologica dei personaggi non manca, ed è questo un altro pregio del romanzo: sia le figure maschili che quelle femminili sono delineate con profondità e rigore, emerge lo spirito conservatore della capostipite Giuseppina Saffiotti in Florio, l’inquietudine di Vincenzo, la pacatezza e la lungimiranza dello zio Ignazio Florio, l’apparente remissività di Giulia Portalupi. Tutti i personaggi manifestano importanti tratti del carattere e sono realisticamente rappresentati nei dialoghi così contribuiscono a rendere di giusto spessore quello che di primo acchito potrebbe sembrare solo un romanzo storico. In effetti non si tratta solo di questo. Riduttivo sarebbe voler collocare “I Leoni di Sicilia” tra la narrativa storica giacché proprio l’analisi dei protagonisti, le fini descrizioni degli ambienti domestici e di quelli lavorativi in cui si muovono i vari personaggi, conduce verso un brillante affresco storico-psicologico, di quelli che il lettore non dimentica facilmente. A questo aspetto, non estraneo è il linguaggio utilizzato da Stefania Auci per far rivivere i personaggi: un linguaggio colorito e immediato, che talvolta si adombra di sfumature dialettali per meglio caratterizzare i passaggi dialogici senza essere banale e senza scadere in macchiette preconfezionate. Una lingua rispettosa della storia, calata nella reale dimensione dell’azione, pacata e limpida allo stesso tempo, una forma che si attaglia correttamente alla sostanza della storia senza forzature e senza invenzioni, che lascia libero il lettore di immaginare come anche di seguire con stupore le bellezze uniche del mare Mediterraneo, forse anch’esso importante e mai tralasciato protagonista dell’intera storia assieme agli individui che coraggiosamente lo hanno attraversato.
 * * *

giovedì 18 luglio 2019

L'IMPROMISSA - CHIARA FERRARIS - 24 SETTEMBRE

SESTO COMPLEANNO DEL CLUB A KM ZERO

PRESSO AGRITURISMO E REIXE - SANT'OLCESE



Genova. Quando Agata varca la soglia, l'appartamento è silenzioso e tremendamente buio. Sua madre non c'è più, da diversi mesi ormai. Resta soltanto l'odore delle stanze vuote, la polvere sui mobili, insieme all'eco dei ricordi e ai segreti, che ora nessuno può più mantenere, e che i vecchi quaderni dell'amata zia Alice, rimasti a lungo nascosti, sono pronti a rivelare. Quelle pagine custodiscono, infatti, il ritratto di una donna che Agata stenta a riconoscere come la sua zia Alice, e la storia di un grande amore proibito, di cui non ha mai saputo nulla. E sarà proprio il racconto di quella vita segreta a cambiare tutto, anche nel suo presente. Perché c'è un filo unico, un sentiero sepolto che unisce le generazioni di donne della famiglia Lantieri. Agata, ancora una volta lontana da Genova, tra gli scorci rassicuranti delle estati trascorse nella fattoria di famiglia in Valpolcevera, scoprirà non solo la vera storia della propria famiglia, ma imparerà anche che la forza nasce dalle fragilità, il coraggio dal dolore e che il vero amore non conosce lo scorrere del tempo. Soprattutto si renderà conto che quel fazzoletto di terra, tra i due versanti di una collina, sulle alture genovesi, racchiude in sé tutta la loro storia: ogni ritorno è un ritorno lì, ogni partenza è una partenza da lì, ogni perdita, ogni nascita, ogni gioia e ogni dolore sembra compiersi e avere senso soltanto tra quei colori. Oggi più di ieri. Intrecciando luoghi, accadimenti e personaggi, Chiara Ferraris restituisce al lettore al tempo stesso un frammento della grande storia d'Italia e una saga familiare. Tra passato e presente, "L'impromissa" si rivela così una storia d'amore e di appartenenza, dove le protagoniste sono le donne, le loro scelte, la loro forza, il loro sacrificio.

mercoledì 22 maggio 2019

17 LUGLIO - IL RACCONTO DELL'ANCELLA DI MARGARET ATWOOD

Grazie Maria per la tua ospitalità meravigliosa!


Alla fine del ventesimo secolo le superpotenze mondiali sono stremate dalla guerra mentre la Terra è devastata dall'inquinamento radioattivo e chimico; il malcontento serpeggia tra la popolazione che ha raggiunto la crescita zero e, per sedare le rivolte intestine, viene siglata una tregua e il cosiddetto "accordo sulle sfere di influenza" che lascia liberi i vari governi di scegliere i mezzi ritenuti necessari per sedare le rivolte senza che le altre nazioni si intromettano. Come risultato, nel Nord America a seguito di un golpe, si insedia un regime totalitario teocratico di ispirazione biblica, la "Repubblica di Galaad" che, sin da subito, rende le donne asservite all'uomo per scopi riproduttivi, dichiara illegali le altre confessioni religiose, i matrimoni al di fuori della Chiesa di Stato e la lettura, tranne che da parte di uomini e membri della gerarchia galaadiana. I riottosi vengono eliminati o esiliati nelle colonie ove vengono impiegati nel trattamento e smaltimento dei rifiuti tossici che hanno contaminato il pianeta. Le donne non fertili o troppo anziane per essere ancora utili nei lavori più umili sono dichiarate "Nondonne" ed eliminate. Guerre civili continuano tra le varie confessioni religiose e la Repubblica di Galaad mantiene il controllo della popolazione e delle donne con il terrore e con i pogrom. Da un giorno all'altro le donne sono state private di ogni bene, ogni diritto e ogni libertà.[2]
Il vertice della piramide sociale di Galaad è rappresentato dai Comandanti, gerarchi della Repubblica e depositari del potere. Seguendo il precetto biblico della Genesi 30,1-4 secondo cui i mariti qualora avessero mogli sterili, potevano copulare con le proprie serve per generare figli, i Comandanti si dotano di Ancelle, donne fertili in stato di completo asservimento, schiavizzate al solo scopo di procreare.[2]
« Rachele, vedendo che non le era concesso di procreare figli a Giacobbe, divenne gelosa della sorella e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli, se no io muoio!».
Giacobbe s'irritò contro Rachele e disse: «Tengo forse io il posto di Dio, il quale ti ha negato il frutto del grembo?».
Allora essa rispose: «Ecco la mia serva Bila: unisciti a lei, così che partorisca sulle mie ginocchia e abbia anch'io una mia prole per mezzo di lei».
Così essa gli diede in moglie la propria schiava Bila e Giacobbe si unì a lei. »   (Genesi 30,1-4)
Oltre alle Ancelle, ai Comandanti dei Fedeli, e alle Nondonne, vi sono altre categorie sociali, le Marte, ovvero le serve, gli Occhi, membri dei servizi segreti, i Custodi ossia l'equivalente maschile delle Marte cui non è consentito avere rapporti con le donne, gli Angeli, ossia i militari, le Mogli dei Comandanti e degli Angeli, le Zie, guardiane del rigore morale delle donne, le Economogli, sposate a uomini appartenenti a bassi ceti sociali, e le prostitute, la cui esistenza non è ufficialmente ammessa.[2]
Dalle parole dalla protagonista, incise su musicassette e ritrovate più di un secolo dopo, apprendiamo la sua storia. Difred, prima di essere costretta a diventare ancella, conviveva con un uomo divorziato, Luke, e con lui aveva avuto una bambina. In pochi mesi la sua vita cambia: viene licenziata, il suo conto bancario azzerato e perseguitata per quello che viene considerato un rapporto illegittimo (in quanto sono considerati validi solo i primi matrimoni). I due tentano di espatriare con la figlia in Canada ma durante la fuga vengono arrestati. Luke sparisce, la figlia data in affidamento ad una delle famiglie di elevato rango sociale che non hanno figli e Difred è costretta alla schiavitù sessuale come ancella in casa dei Comandanti. Difred non è il suo nome di battesimo, che non vorrà mai rivelare durante la narrazione,[8]: le viene infatti assegnato quello del loro padrone, preceduto dalla preposizione "Di", in questo caso "del Comandante Fred", ossia "Difred". Nella casa del Comandante la sua vita trascorre con inerzia, tra le angherie della moglie del padrone, che subisce con stizza le rituali copule del marito con la sua ancella (che avvengono a scansione mensile, nel periodo fertile di quest'ultima), sperando comunque di avere un figlio da accudire, unico mezzo questo per ottenere una certa considerazione sociale. Si scoprirà poi che Difred è solo l'ultima di una serie di ancelle affidate al Comandante, probabilmente lui stesso sterile, l'ultima delle quali morta suicida non prima di aver inciso con uno spillo nell'armadio della sua camera la frase in latino maccheronico "Nolite te bastardes carborundorum"(tradotta: "che i bastardi non ti schiaccino").[2] Il Comandante, nonostante sia vietata ogni intimità con l'ancella che non sia l'atto sessuale consumato in presenza della moglie e di tutta la servitù riunita, inizia a frequentare di nascosto Difred. I due inizialmente si limitano a praticare quelle attività divenute illegali e giocano a Scarabeo; lui le permette di leggere alcune riviste che prima dell'avvento del regime di Galaad erano dedicate ad un pubblico femminile. Successivamente le pretese del Comandante si fanno più pericolose, introducendola di nascosto dopo averla fatta travestire in maniera osé in una casa di tolleranza allestita dal regime per i funzionari di Galaad, un posto segreto il cui nome è "Gezebele".[2]
La donna è costretta ad annullare la propria personalità e ad accettare le attenzioni e i capricci del Comandante che, in questo modo, vuole affermare il suo controllo e il suo potere. Difred è terrorizzata da possibili ripercussioni, avendo avuto esperienza diretta delle punizioni impartite ai disubbidienti e non ha il coraggio di sottrarsi alle richieste; unica forma di evasione è il rapporto clandestino che Difred riesce ad avere con Nick, il Custode factotum del Comandante, apparentemente ai più bassi gradini della scala sociale. Nel frattempo Difred da mezze parole scambiate con un'altra ancella, Diglen, viene a sapere dell'esistenza di un movimento clandestino di resistenza il "Mayday", la collega le chiede di collaborare raccogliendo informazioni contro il Comandante. Difred però è terrorizzata e non fornisce alcun aiuto alla compagna, accettando di annullarsi supinamente al regime, pur di sopravvivere.[2]
La moglie del Comandante, Serena Joy, sa che il marito è sterile ma non può ammetterlo pubblicamente, poiché secondo l'interpretazione biblica fatta dai teologi di Galaad, solo alla donna può essere imputata la sterilità, non all'uomo; per uscire dall'impasse, pur di avere un bambino da accudire e liberarsi una volta per tutte della presenza delle ancelle nella casa, suggerisce a Difred di lasciarsi mettere incinta da Nick promettendole in cambio di farle avere notizie della figlia scomparsa. Anche Difred è ansiosa di avere un figlio, così da liberarsi dall'obbligo dei ripetuti tentativi di inseminazione da parte del Comandante e per evitare di essere considerata "Nondonna" e quindi essere deportata nelle Colonie. Come promesso Serena riesce ad ottenere e mostrare a Difred una foto della figlia in compagnia di genitori adottivi e le ricorda di mantenere il patto. Difred, benché titubante per l'accordo, successivamente dimostra un reale interesse per Nick e da quel momento in poi si rifugia tra le braccia di Nick ogni possibile sera, benché sia a conoscenza dei rischi che corre. Ad un certo punto, però, Serena Joy scopre le attenzioni rivolte all'ancella da parte del marito e promette severe ripercussioni. Difred viene inoltre a sapere che Diglen è stata scoperta e che si è suicidata; è terrorizzata e progetta anche lei il suicidio quando dalla finestra della camera vede sopraggiungere un furgone dei servizi segreti, i famigerati "Occhi". Nel mentre viene raggiunta da Nick che tenta di tranquillizzarla, dicendole che in realtà è arrivato il Mayday. Il racconto di Difred termina con l'ancella che viene prelevata e caricata sul furgone, sotto lo sguardo impotente del Comandante e quello di disprezzo delle altre donne di casa, e mentre sale sul furgone ancora non sa se sia davvero il suo salvataggio o la sua cattura.[2][9]
Il romanzo termina con un epilogo metafittizio ambientato circa due secoli dopo, nella forma di una parziale trascrizione del "dodicesimo simposio di studi Galadiani", tenutosi nel 2195. Il professor Pieixoto, oratore del simposio, ha scoperto insieme al professor Knotly Wade una raccolta di audiocassette contenenti la storia di Difred, da loro trascritta e battezzata come "il racconto dell'ancella", argomentando sull'impossibilità di stabilire l'autenticità del racconto e presentando i loro studi per tentare di identificarne i protagonisti. Suggerisce che forse il Comandante potrebbe essere identificato con Frederick R. Waterford, alto esponente del regime e successivamente vittima di una purga, o forse con Frederick Judd, altro Comandante del primo periodo Galaadiano. Non sono certi sul destino della protagonista: l'esistenza delle registrazioni suggerisce che effettivamente sia fuggita con l'aiuto di Nick, ma non si sa se sia stata in seguito ricatturata, oppure se abbia superato il confine ma abbia mantenuto l'anonimato per paura di ritorsioni contro Nick e la figlia o per via dell'incapacità di riadattarsi alla vita nel mondo fuori da Galaad.[10][11]

mercoledì 3 aprile 2019

13 GIUGNO - ORDINE DEGLI AVVOCATI DI GENOVA - PREMIO "MASCIA POGGI" SEZIONE GIALLO




work in progress

21 MAGGIO - CANI NERI DI IAN MC EWAN PRESSO INTERNO 1










Sono semplici cani randagi, inselvatichiti e resi aggressivi dalla fame, o forse affetti da rabbia, oppure creature metafisiche, vive allegorie del Male, i due grossi molossi neri da cui June viene aggredita, mentre percorre un sentiero isolato lungo le Gole della Vis, nel sud della Francia, in un torrido primo pomeriggio dell’agosto del 1946?
Attorno a questa domanda, naturalmente destinata a restare senza risposta, si giocano le esistenze di June e Bernard, i protagonisti di Cani neri, di Ian McEwan; due vite destinate a correre appaiate, pur se divise, e il cui racconto viene restituito, a ritroso, dalla voce narrante del genero della coppia, Jeremy, che già dalla prima pagina rivela al lettore la sua condizione di orfano in cerca di una famiglia di riferimento, che troverà in gioventù, di passaggio, in quelle dei suoi compagni di scuola e poi, definitivamente, nei genitori della moglie, June e Bernard appunto.
Figure monolitiche almeno quanto quelle dei due enormi cani neri – annunciati già dalle prime pagine, ma narrati compiutamente solo alla fine del romanzo, quando il lettore è pronto a comprenderne tutto il portato – June e Bernard si sono conosciuti e scelti da giovanissimi, hanno condiviso gli ideali della Resistenza e del marxismo, con lo stesso entusiasmo con cui hanno condiviso l’esaltante scoperta dei loro corpi, e i sogni più privati, come quello di un figlio o di una casa, ma poi si sono separati, a causa dell’intransigenza di entrambi, senza mai smettere di costituire, l’uno per l’altra, l’unico amore possibile, l’eterno punto di riferimento, nel bene e nel male, per quarant’anni.
Per June il punto di svolta coincide proprio con l’incontro con quei due cani di proporzioni innaturali, apparsi nel nulla come mostri mitologici, come allegorie a beneficio di June stessa, come materializzazione di tutte le paure senza nome che da tempo la attanagliavano. La loro presenza di per sé terrificante, l’aggressione e la sua resistenza segnano il momento della sua scoperta di se stessa, prima che del divino. Da quel momento, niente per lei è come prima e Bernard, che invece è rimasto fedele alle sue idee, incapace di seguirla non può che lasciarsi abbandonare, o abbandonarla.
McEwan, attraverso il suo narratore, Jeremy, non fa che contrapporre le due visioni, quella di June, mistica e critica verso tutti i sistemi, tesa alla ricerca di uno ‘scopo finale’ dell’esistenza di cui si mostra pronta a cogliere i segnali, e quella di Bernard, materialista, razionale e scientifica, sufficientemente fedele all’idea da non riuscire a venir meno alla militanza, anche dopo il fallimento del comunismo applicato.
Il punto di vista di Jeremy oscilla tra queste due opposte visioni della vita, sempre con la sensazione che una soltanto non sia sufficiente a spiegare tutto, che a entrambe manchi qualcosa, incapace di fare una scelta e allo stesso tempo consapevole che accoglierle entrambe equivarrebbe a non credere a nulla, allo scetticismo più totale, all’ignavia.
Una conciliazione non sembra praticabile, e McEwan fortunatamente sfugge alla trappola di permettere che l’Amore faccia la magia: l’amore non basta, e la storia di June e Bernard ne è la prova, dal momento che è evidente che i due non hanno mai cessato di amarsi, eppure non vi è riconciliazione possibile, nemmeno dopo la morte di June.
Dal confronto tra le due versioni della loro storia, attraverso l’intermediazione di Jeremy, risulta chiaro che entrambi barano, che è necessaria una buona dose di contraffazione della verità anche solo per restare fedeli a se stessi. June è accusata da Bernard di falsificare la sua verità privata, di alterare la vita per costruire leggende, di stravolgere i fatti per trovare conferma delle proprie convinzioni, mentre June accusa Bernard di contraffare la Storia, di mistificare la realtà per non ammettere il proprio errore, per non aprire gli occhi sul presente e poter vivere sempre nel tempo dell’ideologia, il futuro irraggiungibile del Progresso.
L’unica verità incontestabile è forse il dolore che entrambi provano per il fallimento del loro amore, per non essere riusciti a parlarsi, a stare insieme malgrado il sentimento sostanzialmente intatto, la loro inspiegabile solitudine vissuta l’uno nell’ossessione dell’altro.
“Non abbiamo saputo mettere da parte l’amore, ma nemmeno piegarci al suo potere” confida June, in punto di morte, a Jeremy che cerca di scrivere la sua biografia.
Allo stesso tempo, la storia privata di June e Bernard si muove come un contrappunto alla Storia.
I due si sono sposati alla fine della seconda guerra mondiale, hanno vissuto gli orrori del nazismo, la fede nel comunismo e la sua caduta. Quarant’anni dopo, nel 1989, Bernard conduce Jeremy a Berlino, per partecipare all’esplosione di ingenuo entusiasmo e collettiva ubriacatura che accompagna la demolizione del Muro e già cova i semi di una nuova ondata di violenza.
Il fallimento della Storia si intreccia con il fallimento della loro storia, i ‘cani neri’ (che il sindaco del paese dove si sono materializzati in quell’estate del 1946 ha affermato essere quelli portati durante la guerra dai nazisti, e usati per torturare i prigionieri), corrono ancora liberi, pronti a materializzarsi in altri luoghi, lasciando una scia rossa di sangue sulle pietre bianche, come nel sogno ricorrente di June.
A Berlino, Bernard incontra i suoi, un gruppo di naziskin che lo aggredisce per aver tentato di difendere uno strambo nostalgico con una bandiera rossa, ma viene salvato da una ragazza – una sconosciuta incrociata poco prima e notata da Bernard stesso per una certa somiglianza con June, morta due anni prima – che interviene come un angelo vendicatore, scacciando i ragazzi. Ma, a differenza di quanto aveva fatto June, Bernard non è intenzionato a trovare un significato simbolico in questo avvenimento, nonostante poche ore prima fosse stato proprio lui a raccontare a Jeremy di aver atteso ‘un segno’ da June, nei primi mesi dopo la sua morte, e di aver continuato, poi, a guardare le ragazze, cercando in loro una somiglianza con quella che aveva sposato.
Ma, quando la stessa ragazza che lui aveva notato nella folla lo salva da un gruppo di teppistelli intenzionati a dargli una lezione, Bernard, coerente fino in fondo, si limita a liquidare il fatto come una mera coincidenza.
È forse proprio con questa scelta che l’autore sembra far pendere la bilancia in favore della visione di June.
La caparbia negazione di Bernard appare eccessiva, così come sarebbe risultata incoerente e improbabile una sua resa: è nella costruzione stessa dell’episodio – la ragazza notata in quanto somigliante a June, la confidenza di Bernard, l’attesa di un segno, l’aggressione e quindi il salvataggio a opera proprio di quella ragazza, intravista e poi persa nella folla – che l’autore inserisce il dubbio, mettendo in dubbio anche l’ateismo del lettore.
Chi non sarebbe pronto, in quelle circostanze, a vedervi un segno? Altri episodi sembrano rafforzare la posizione di June: Jeremy, tornato al buio nella casa in cui lei ha vissuto – una fattoria acquistata proprio poco dopo l’episodio dei cani neri, a poca distanza dalle Gole – avverte la sua presenza tanto da esserne inquietato e cercare un fiammifero invece di riattivare l’interruttore generale alla cieca, risparmiandosi così uno scontro con uno scorpione, una giovane June, accortasi da poco di essere incinta teme che l’uccisione di una bellissima libellula possa causare una punzione al suo bambino, e la piccola Jenny nasce in effetti con un sesto dito; questo mentre la fede di Bernard nel progresso e nella scienza sembrano essere messe a dura prova dagli avvenimenti.
Il momento del ritorno a Berlino, la passeggiata di Bernard e Jeremy tra la folla festante, lungo le barricate, sulla piattaforma di legno di Potsdamer Platz, è avvolta da un senso di amarezza e di inquietudine, è chiaro che la caduta del Muro non sancisce la fine di uno stato di belligeranza, ma è destinato a riaprire vecchie ferite e riaccendere vecchi e nuovi conflitti, rimasti sopiti sotto la cappa pesante della guerra fredda, come la sanguinosa guerra jugoslava rivelerà di lì a poco.
Eppure, Bernard è ancora pronto, nonostante l’età e la disillusione, a intervenire in prima persona contro l’ingiustizia, a rischiare la pelle per salvarla a uno sconosciuto, esattamente come fa l’alter ego di June, la ragazza di Berlino.
Sperando di sfuggire a una metafora troppo semplice, se Bernard e June rappresentano un passato di idee forti e di lotta e la ragazza di Berlino potrebbe rappresentare il futuro, o la speranza per il futuro, Jeremy, nella sua veste di testimone ‘orfano’ di una guida e troppo incerto nei suoi passi sembra il ritratto più verosimile del presente.
“Non so dire se la nostra civiltà che ormai si affaccia alla fine di questo millennio soffra più per una mancanza o per un eccesso di fede, se siano stati individui come Bernard e June a ridurci così, o non piuttosto tipi come me”.

lunedì 18 febbraio 2019

2 APRILE - LE BRACI DI SANDOR MARAI




Dopo quarantun anni due uomini, che da giovani sono stati inseparabili, tornano a incontrarsi in un castello ai piedi dei Carpazi. Uno ha passato quei decenni in Estremo Oriente, l’altro non si è mosso dalla sua proprietà. Ma entrambi hanno vissuto in attesa di quel momento. Null’altro contava, per loro. Perché condividono un segreto che possiede una forza singolare. Tutto converge verso un «duello senza spade» – e ben più crudele. Tra loro, nell’ombra, il fantasma di una donna. E il lettore sente la tensione salire, riga dopo riga, fino all’insostenibile.

«...un libro straordinario per grandezza d'ispirazione e intensità di stile, da mettere accanto ai pochi libri bellissimi della sua epoca»