Qualche giorno dopo l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti, in una lussuosa villa del Connecticut, alcuni amici newyorkesi appartenenti all’alta borghesia intellettuale si ritrovano per riprendersi da quella che considerano la più grande catastrofe politica della loro vita. Si rifugiano in campagna nella speranza di ristabilire la “bolla” in cui sono abituati a vivere. Eva Lindquist, la padrona di casa, propone una sfida. Chi di loro sarebbe disposto a chiedere a Siri come assassinare Trump? Nessuno, a eccezione di un cinico editore, raccoglie la provocazione. Gli amici progressisti di Eva e del marito Bruce con la loro pavida reazione introducono uno dei temi portanti del romanzo: la paura di fronte a un nuovo clima politico. Delusa dal suo paese, dove non si sente più “a casa” e al sicuro, Eva decide di partire per Venezia, città che ha conosciuto e amato in gioventù. Lì, quasi per caso, visita un affascinante appartamento e decide di acquistarlo. Il soggiorno in quella città la aiuta a cercare un nuovo modo di immaginare il mondo. Intorno a quello di Eva si intrecciano i destini degli altri personaggi, che prendono forma attraverso dialoghi incalzanti e ironici, nei quali si configurano possibili soluzioni a esistenze segnate dall’inquietudine. Ecco allora i tradimenti, le fughe e la menzogna a coprire tutto. Il decoro affronta gli imprevedibili appetiti d’amore, di potere e di libertà che plasmano la vita pubblica e privata delle classi privilegiate. Un romanzo che parla del bisogno di sicurezza e dell’istinto di scoperta, del rapporto tra altruismo e autoconservazione e della natura effimera di un certo tipo di ricercatezza.
Oltre i bigotti anni cinquanta e gli spudorati anni sessanta
di Fabio Cremonesi
Malgrado un noto proverbio inglese reciti Two’s company, three’s a crowd (“Due fanno una coppia, tre fanno una folla”, giusto per essere un po’ infedele all’originale!), credo che per un traduttore essere chiamato a ritradurre opere di narrativa già edite in italiano sia una delle esperienze più stimolanti. Forse è semplicemente l’idea che a essere in due si è meno intimiditi di fronte all’autore: sì, capita anche questo nella “rocambolesca” vita di un traduttore. Io per esempio sono terrorizzato al pensiero che, dopo In Gratitudine, uscito l’anno scorso (per NN), mi aspettino altre due opere di Jenny Diski, eppure sapere che una delle due è una ritraduzione mi conforta assai.
O forse a essere seducente è proprio l’idea che, di fronte a un dubbio sulla bontà di una soluzione, ci sia la possibilità di allearsi di volta in volta con l’autore o con il precedente traduttore per ottenere una “maggioranza numerica” impossibile da raggiungere quando si è a tu per tu con il solo autore (ma come? – si obietterà – l’ultima parola spetta sempre all’autore, il che è vero solo se non si considera che l’autore non sta parlando in italiano, quindi a volte, con dolcezza e senza forzature, al traduttore tocca convincerlo della bontà delle proprie scelte traduttive).
Perché si ritraduce?
Ma a questo punto mi pare il caso di fare un passo indietro per la domanda che mi viene rivolta più spesso quando mi capita di parlare di ritraduzioni: perché si ritraduce?
Ovviamente le risposte sono infinite e disparate, da quella più ovvia – non tutte le traduzioni sono buone traduzioni – ad altre più sfuggenti, per esempio che le traduzioni invecchiano, come è facile constatare per esempio leggendo una traduzione degli anni trenta di un romanzo ottocentesco; ci sarebbe poi da fare un discorso sugli standard traduttivi di oggi, che, contrariamente ai luoghi comuni, sono molto più elevati di quelli di un tempo: la storica traduzione di Bice Giachetti-Sorteni di La montagna incantata di Thomas Mann, per citare un caso notissimo, era un’eccellente traduzione per i suoi tempi, ma oggi lo standard è quello definito dalla magistrale versione di Renata Colorni, che tra l’altro fin dal titolo – La montagna magica – corregge quello che oggi è giustamente considerato un errore madornale. Questo aumentare degli standard ha, peraltro, delle motivazioni molto concrete: sia perché la platea dei possibili traduttori tra cui le case editrici scelgono si è enormemente ampliata rispetto al passato, sia perché i traduttori oggi dispongono di una risorsa formidabile come il web, inteso come immenso archivio di informazioni ma anche come “intelligenza collettiva”. Inoltre, più prosaicamente, oggi come oggi qualunque traduttore ha la possibilità di mandare una e-mail o di telefonare per pochi spiccioli all’altro capo del mondo.
In altri casi a far optare per una nuova traduzione è la volontà dell’editore di dare un’unica voce all’intera produzione di un autore (è il caso di Canto della pianura di Kent Haruf, ritradotto dal sottoscritto per NN, dopo che in Rizzoli era apparsa la bella traduzione di Fabrizio Ascari). Altre volte ancora la ritraduzione serve anche a restituire al lettore nella sua integrità un testo a suo tempo mutilato dalla censura o, come nel caso dello splendido E il vento disperse la nebbia di James Leo Herlihy, appena uscito per Centauria, dall’autocensura (redazionale o forse operata dal traduttore stesso, chissà) della prima edizione italiana. Nella precedente edizione del 1960, tanto per capirci, era stato omesso un paragrafo intero solo perché conteneva la parola “inguine”. La censura in questo caso appare particolarmente bizzarra in quanto il romanzo tratta dell’educazione sentimentale di un adolescente di provincia in un momento di svolta nella storia degli Stati Uniti: il passaggio tra i bigotti, puritani anni cinquanta e i libertari, “spudorati” anni sessanta: in un contesto del genere, togliere ogni riferimento alla fisicità dei personaggi significa depotenziarlo fino a renderlo quasi incomprensibile, reticente laddove l’originale è conturbante, frigido laddove dovrebbe risultare provocante.