venerdì 12 novembre 2021

LA GEOMETRIA DELLE COPPIE - DIANA EVANS - 18 GENNAIO 2022

 


oosteria.it


Per festeggiare l’elezione di Obama, i fratelli Wiley diedero un party a casa loro, nella zona di Crystal Palace. Abitavano vicino al parco, dove la torre per le telecomunicazioni incombeva, innalzata verso il cielo, come una Torre Eiffel in tono minore, austera e metallica di giorno, rossa e illuminata di notte, dominando i quartieri circostanti di Londra e le contee limitrofe, e proteggendo, nella distesa verde ai suoi piedi, quanto restava del tramontato regno di cristallo: il lago, il labirinto, le statue greche spezzate, i leoni di pietra erosi dal tempo e i dinosauri ricostruiti da una scienza invecchiata.

In precedenza i fratelli Wiley vivevano a nord del fiume: si erano trasferiti nel Sud della città per la sua energia creativa e il carisma della sua povertà (consapevoli dei loro privilegi, volevano dare l’impressione di esserne usciti spiritualmente indenni). Bruce, il maggiore, era un noto fotografo: sul retro della casa c’era il suo studio, un dedalo di luci e oscurità. Gabriele faceva l’economista. Malgrado fossero l’uno l’opposto dell’altro in ogni senso – Bruce aveva una corporatura robusta, Gabriele era magro; Bruce beveva, Gabriele no; Bruce non possedeva nemmeno un completo, Gabriele non portava altro – organizzarono la festa con comune impegno e unità di intenti. In primo luogo compilarono la lista degli invitati, in cui figuravano tutte le persone importanti, di successo e ricche che conoscevano: avvocati, giornalisti, attori e politici. A seconda delle dimensioni dell’evento, gli ospiti di minor riguardo venivano scelti con criteri variabili in base a posizione sociale, conoscenze, aspetto e personalità, esaminati dai due fratelli nella veranda dove si svolgeva la maggior parte delle loro conversazioni serali. In quella particolare occasione invitarono più ospiti del solito, perché volevano una festa grandiosa. Completato l’elenco, Gabriele fece girare un sms.

Poi si occuparono entrambi dei tre ingredienti essenziali di un party, le bevande, il cibo e la musica. Avendo fissato la data per il sabato successivo alle elezioni, non avevano molto tempo. Comprarono bottiglie di champagne, noci di macadamia, ali di pollo, olive farcite al peperone, rievocando dall’inizio alla fine i momenti salienti della loro notte insonne di martedì, quando avevano guardato gli Stati blu mangiarsi quelli rossi e visto le lacrime di Jesse James a Grant Park e la vittoriosa avanzata dei quattro Obama verso il palco a prova di proiettile; inoltre parlarono del tempo del giorno successivo, così luminoso e azzurro per essere novembre, e della gente, degli sconosciuti, cordiali e sorridenti, che si scambiavano il buongiorno, a Londra! Immaginarono, mentre preparavano la playlist da passare al dj, le note di Jill Scott, Al Green e Jay-Z che fluttuavano fuori dalle finestre della Casa Bianca. Per migliorare l’isolamento acustico ed evitare danni, schermarono con pannelli di truciolato gli scaffali metallici del soggiorno e stesero vecchie stuoie sui pavimenti di noce. Lasciarono il Chris Ofili sulla parete centrale, con un divano sotto il quadro e alcuni cuscini sparsi qua e là, ma tolsero gran parte dei mobili. Gabriele sistemò un avviso sullo specchio del bagno, invitando tutti a rispettare il fatto che si trovavano in una casa privata e non in un locale notturno.


NELLIE BLY - DA DOVE NASCE IL VENTO - 9 NOVEMBRE

 



Elizabeth Cochran ovvero Nellie Bly (Cochran’s Mills, Pennsylvania, 5 maggio 1864 – New York, 27 gennaio 1922)

Visse solo 57 anni la “pioniera del giornalismo d’inchiesta”, ma furono anni intensi e combattuti, già a partire dall’infanzia.

Tredicesima dei quindici figli del giudice Michael Cochran, aveva solo sei anni quando il padre morì e la famiglia cadde in miseria. La madre si risposò con un uomo che si rivelò violento e alcolizzato; riuscirà a divorziare dopo qualche anno anche grazie alla testimonianza di Elizabeth che dichiarerà coraggiosamente al giudice: “Il mio patrigno ha sempre bevuto. Ha un pessimo carattere da ubriaco, ma anche da sobrio”.

Elizabeth amava molto scrivere e amava ancor di più l’indipendenza; per questo a quindici anni si iscrisse all’Indiana Normal School con l’intenzione di diventare maestra, un lavoro “rispettabile” e uno dei pochissimi consentiti alle ragazze dell’epoca. A causa della mancanza di denaro fu però costretta ad abbandonare gli studi molto presto per aiutare la madre a gestire una piccola pensione e, contemporaneamente, per cercare un lavoro e contribuire al mantenimento della famiglia.

Ma ecco la svolta…

Sul giornale locale “Pittsburgh Dispatch” era apparso un articolo intitolato “A cosa servono le ragazze (What Girls Are Good For) di Erasmus Wilson, uno dei più famosi editorialisti di Pittsburgh. L’articolo sottolineava un concetto allora assai diffuso cioè che le donne appartenevano alla sfera domestica e il loro compito era cucire, cucinare e crescere i bambini: quelle che lavoravano al di fuori delle mura di casa erano da considerarsi una “mostruosità”.

Al giornale piovvero molte lettere di protesta. Una, firmata Little Orphan Girl, colpì il direttore Madden per la sua forza e intelligenza. Certo che fosse stata scritta da un uomo, Madden pubblicò un annuncio sul giornale nel quale invitava l’autore a presentarsi per una proposta di lavoro.

E con grande stupore del direttore a presentarsi fu proprio la ventunenne Elizabeth.

Elizabeth riuscì a convincere George Madden ad assumerla ma fu costretta a nascondersi dietro lo pseudonimo di Nellie Bly perché era impensabile, addirittura scandaloso, nella società tardo ottocentesca che una donna potesse ricoprire un incarico così impegnativo e lontano dagli standard dell’epoca.

Lei invece inaugurò un giornalismo nuovo, oggi si direbbe d’assalto, perché realizzò inchieste decisamente rivoluzionarie, raccontando di operaie sfruttate, lavoro minorile, salari bassi, emancipazione femminile e diritto al divorzio.

Chiaramente si fece dei nemici e dei nemici potenti; uomini d’affari e industriali minacciarono di non finanziare più il giornale e Nellie venne “retrocessa” alle pagine di moda e giardinaggio, finché non convinse Madden a inviarla come corrispondente in Messico. Fra il 1886 e il 1887 raccontò le storie di povertà e di corruzione del paese ma dopo soli sei mesi il governo messicano la espulse parchè pubblicò la storia di un giornalista imprigionato dal presidente Porfirio Diaz. Da questa esperienza nacque il libro – testimonianza “Six Months in Mexico”.

Dopo l’esperienza messicana, nel 1887 lasciò il “Pittsburgh Dispatch” e si trasferì a New York dove si conquisterà la fama di pioniera del giornalismo investigativo lavorando per il “New York World”, uno dei più importanti quotidiani della città, diretto da Joseph Pulitzer.

La sua prima e importante inchiesta, oggi si direbbe “sotto copertura”, la portò nell’istituto psichiatrico femminile di Blackwell’s Island. Nellie, fingendosi mentalmente disturbata e ingannando alla perfezione medici e giudice che ne decise l’internamento, riuscì a farsi ricoverare nel manicomio sul quale giravano da tempo voci di maltrattamenti e incuria nei confronti delle pazienti. Nei dieci giorni trascorsi da reclusa sperimentò sulla propria pelle i soprusi e i maltrattamenti a cui tutte le internate erano continuamente sottoposte. All’ingresso le pazienti venivano private dei loro abiti, buttate in una tinozza di acqua gelata e vestite con una “sottoveste di flanella” che non le riparava certo dalla temperatura rigida del locale; in seguito l’abbigliamento era sostituito da una sottoveste di cotone grezzo e un vestito di un tessuto leggero ed economico provenente dall’India (Calicut), sempre inadatti a riparare dal freddo; il cibo era immangiabile, rancido e buono per la spazzatura; i letti erano infestati da insetti di ogni tipo e l’igiene personale era ignorata. Le pazienti venivano letteralmente strigliate con un bagno a settimana in una vasca di acqua gelida che, oltretutto, non veniva mai cambiata tra una e l’altra. Erano frequenti le morti di polmonite, di stenti, o per i continui maltrattamenti fisici e psicologici subìti, complici medici e infermieri convinti che non valesse la pena spendere la loro professionalità per quei rifiuti di umanità.

L’inchiesta comprensibilmente causò grosso scalpore e grazie a essa gli abusi del manicomio sull’isola furono condannati dalla magistratura mentre il governo stanziò un milione di dollari in più per la riforma degli istituti di cura mentale nello stato di New York.

Elizabeth continuò il suo lavoro con inchieste sulle condizioni di vita e lavorative di donne occupate nelle fabbriche o come domestiche e serve, sottopagate o non pagate affatto, sulla “compravendita” dei bambini indesiderati, sulle false agenzie di collocamento. Ma il suo “modus operandi” era decisamente innovativo: diventò ladra per descrivere lo stato delle prigioni, facendosi imprigionare così come si era finta malata di mente per entrare in manicomio; si presentò come ragazza madre indigente per introdursi nel losco giro del traffico dei bambini; si fece assumere come operaia in una fabbrica di cartone al fine di denunciare le condizioni delle lavoratrici e addirittura si finse prostituta per raccontare il mondo delle case chiuse.

In quel periodo un altro quotidiano, il “New York Journal”, la incoronò “migliore reporter d’America”.

Amante delle sfide e all’apice della fama, nel 1889 sulla suggestione del “Giro del mondo in ottanta giorni” di Jules Verne, Pulitzer decise di finanziarle il giro del mondo. Il 14 novembre 1899 Nellie Bly lasciò New York e viaggiò via nave, treno e a dorso d’asino. Il “New York World” pubblicò ogni giorno i suoi articoli e più di un milione di persone partecipò alla lotteria istituita da Pulitzer per indovinare l’attimo in cui Nellie avrebbe rimesso piede a New York.

Il 25 gennaio 1890 alle 15.51 migliaia di persone festeggiarono la fine del viaggio e il suo record: in 72 giorni, 6 ore, 11 minuti e 14 secondi Nellie Bly aveva completato il giro del mondo.

Si sposò con un magnate dell’acciaio molto più vecchio di lei che presto la lasciò vedova e con un’azienda da mandare aventi. Probabilmente non era tagliata per la conduzione di industrie ma nelle sue fabbriche c’erano ambulatori medici, biblioteche e corsi per insegnare agli operai a leggere e a scrivere. Dopo pochi anni però dichiarò bancarotta e per sfuggire ai creditori si rifugiò in Svizzera.

Nel 1914 allo scoppio della prima guerra mondiale Nellie Bly ritornò al giornalismo come inviata di guerra per il “New York Evening Journal”, vivendo in trincea con i soldati, scivolando nel fango coperta con pesanti mantelli militari, raccontando gli orrori dei corpi spezzati, il terrore quotidiano sotto i bombardamenti incalzanti. Una passione per il vero e per la denuncia delle ingiustizie, degli abusi sui più deboli che non l’abbandonerà mai, fino alla morte avvenuta nel 1922 per una polmonite. Riposa in una modesta tomba al Woodlawn Cemetery nel Bronx.

mercoledì 28 luglio 2021

FESTA PER L'OTTAVO COMPLEANNO - UN AMORE DI DINO BUZZATI - 21 SETTEMBRE





 “Un amore”, pubblicato nel ’63, è l’ultimo romanzo scritto da Buzzati e si colloca a ventitré anni di distanza dall’“uscita” de “Il deserto dei Tartari” avvenuta nel ’40. Ora se si confronta “Un amore” con “Il deserto”, cioè con quello che è l’indiscusso faro di tutta l’opera di Buzzati – che la identifica dandole una sorta di imprinting – si può restare ancora oggi interdetti. E ciò per la divaricazione tematica e stilistica che i due testi presentano tanto da essere portati a pensare che la parabola di scrittore di Buzzati nel corso del tempo si sia mossa in una direzione diversa da quella originaria fino a trasformare la forma della sua scrittura e i contenuti della sua ispirazione che lo hanno reso famoso.

Ad una prosa elegante e misurata, evocativa e metafisica, rarefatta e quasi magica, quale quella che Buzzati aveva impiegato per narrare l’irreale e surreale attesa di quei fantomatici nemici da parte del tenente Giovanni Drogo e della sua guarnigione, insediati all’interno della fortezza Bastiani posta ai limiti del “deserto dei Tartari”, fa infatti riscontro, in “Un amore”, il più esplicito realismo che spoglia la materia trattata senza pudore e senza pudori. Una materia, a sua volta, inedita per Buzzati, lontana da quella de “Il deserto”, ma anche da quella dei suoi numerosi racconti “fantastici”. Una materia scabrosa e “spinta”, difficile e imbarazzante: quella di una passione amorosa bruciante e ossessiva, cruda e crudele, narrata a forti tinte e in modo spregiudicato. Dove non solo l’attrazione e il desiderio sono esplicitati ma divengono, nel corso del romanzo, un tormento carico di angoscia.

“Un amore” è la storia dell’ impazzimento d’amore del protagonista: l’affermato e maturo architetto milanese Antonio Dorigo, per una ragazza molto più giovane di lui – la ventenne Adelaide Anfossi che, con l’allusivo diminutivo di Laide sarà chiamata per tutto il romanzo – che è una prostituta, o meglio, che è anche una prostituta. Laide infatti conduce una vita parallela, essendo quello della prostituta una sorta di secondo lavoro, svolto in modo segreto e clandestino, dato che “ufficialmente” Laide è una ballerina del corpo di ballo della Scala. Tuttavia quella seconda vita occupa non poco Laide che la svolge senza turbamenti e conflitti, in modo disinibito e navigato. Ed è proprio fra le quattro mura della casa di appuntamenti che Dorigo frequenta, ovviamente anche lui in modo segreto e clandestino, che avviene l’incontro con Laide.

E così come Laide, disincantata e smaliziata, affronta e svolge quella sua “professione” senza farsi troppi problemi e senza averne alcuna ricaduta emotiva, anche Dorigo vive quella sua “abitudine” immune da implicazioni sia morali che psicologiche, attratto dal disimpegno che quel tipo di “soluzione” offre rispetto al coinvolgimento e alla “fatica”che una relazione fissa con una donna “reale” implicherebbe. Insomma una via di fuga facile, sempre pronta e a buon mercato per soddisfare i propri bisogni o meglio quel suo vizio – “lui ci andava per vizio più che per un vero bisogno, per la soddisfazione di provare…di godere una bella ragazza pressoché sconosciuta” – e restare liberi da vincoli e legami.

Ed è in questo contesto, per entrambi strumentale ed anaffettivo, che ha inizio la storia di Dorigo con Laide che finirà per rivelarsi fatale, innescandosi una dinamica perversa e distruttiva di cui Dorigo sarà vittima a causa di quell’innamoramento verso Laide che lo travolgerà. Giacché quell’innamoramento da Laide non sarà corrisposto, non concedendosi ella affettivamente, pur continuando a concedersi a Dorigo fisicamente e “mercenariamente”. L’asimmetria, con Dorigo dominato e Laide dominante, diverrà da subito il leitmotiv di una relazione che nella sua contorta e distorta dinamica si evolverà via via in un legame che ingloberà entrambi.

Laide, approfittando dell’innamoramento di Dorigo che lo rende debole e acquiescente, detta i tempi e i modi di quella relazione, iniziando ad utilizzare Dorigo come suo cavalier servente, come accompagnatore tuttofare, stabilendo il quando e il come vedersi. E Dorigo, pur di starle vicino, pur di averla al suo fianco, pur di poterla stringere a sé, accetta e subisce quelle condizioni per lui dolorose e frustranti. Ma a sua volta Laide, così facendo, finisce comunque per alimentare e tenere viva quella relazione. Ella infatti non allontana da sé Dorigo, non ne fa una presenza marginale ma, al contrario, lo cerca e lo attira se pur nei termini che ella stabilisce e decide.

In questo modo quella relazione apparentemente unilaterale finisce per essere vissuta e “praticata” da entrambi costituendosi, di fatto, una sorta di doppio legame in quanto non più solo Dorigo ma anche Laide gioca un suo ruolo ed ha delle sue motivazioni. Se Dorigo è incessantemente attratto da Laide con tutte le amarezze e le umiliazioni che quell’attrazione per lui comporta, dato che Laide non prova e non manifesta alcun sentimento verso Dorigo, ponendosi per lo più con indifferenza e calcolo nei suoi confronti, ella, a sua volta, ha, in Dorigo, una persona non solo sempre disponibile ma con cui, se vuole e quando vuole, potersi lasciare andare.

E, in questa situazione, si genera in entrambi un doppio vissuto. Alla prevalenza dell’amore per Laide faranno riscontro in Dorigo reazioni di rigetto verso Laide , sebbene per lo più interiorizzate e inibite dalla paura di perdere Laide, la quale, a sua volta, al manifestato disinteresse affettivo e al rapporto utilitaristico verso Dorigo unisce la propensione a “stare” con Dorigo e a concedergli una sua parte di intimità.

E, nel concedere a Dorigo quell’intimità, Laide si concede la possibilità di esprimere quelle parti di sé che tende a comprimere, nascondendole sotto quel cinismo che di solito esterna. Quelle parti che ne fanno ancora, per molti aspetti, una “bambina” con le sue ingenuità e con la sua residua innocenza: “Lei poi in letto era molto più allegra e vivace del solito, mica che l’atto carnale con Antonio le procurasse molto piacere anzi è chiaro che non gliene frega niente, ma il letto forse diventa per lei come un grande giocattolo sul quale è così divertente rotolarsi, fare scherzetti, infilarsi sotto le coperte e nascondersi…Per di più in letto Laide perdeva quell’ “aplomb” disdegnoso a cui teneva tanto…nuda risultava più bambina…e lei stessa probabilmente se ne rende conto e ne gode… e allora si abbandonerà con lui, sorridendo, a vanitose confidenze così candide da renderla ancora una bambina. “Sai che cosa ho io?” gli dirà “Che sono ancora una bambina ma sono terribilmente femmina”…[e]”Sai che cosa sono io?” gli dice…”Io sono la nuvola. Io sono il fulmine. Io sono l’arcobaleno. Io sono una bambina deliziosa”. E nuda, inginocchiata sul letto, aperta dinanzi a lui, lo fissa con occhi impertinenti”

Da questo brano emerge tutta la sottile malizia e, al tempo stesso, la vivace freschezza di Laide che contrasta con quella “sfiducia totale nel mondo, inconcepibile in una ragazzina di venti anni” che Dorigo aveva in un altro momento percepito e che dà l’idea del coesistere in Laide di parti diverse ed opposte. Capace come ella è di apparire forte essendo anche fragile, di essere altera essendo ancora infantile, di essere insieme donna e bambina, così come quei suoi occhi: “…ora spaventati, ora impertinenti e duri, ora allegri e fidenti”.

Vi è quindi in Laide una pluralità di volti che la rende attraente e seduttiva ma anche, e soprattutto, elusiva, essendo quei volti mai disgiunti da una consumata e perfida sapienza nell’ agire sia l’arte della fuga che più ferisce l’amato ma più lo lega a sé, sia una sorta di controdipendenza tanto più l’amato chiede e pretende, usando senza scrupoli l’inganno e le menzogne ogniqualvolta ciò si rende necessario. In una commistione quindi di ruoli e di atteggiamenti in cui i confini fra amica, amante, mercenaria, ma anche nemica, si confondono di continuo.

Dorigo quindi si trova invischiato in un legame che lo ingabbia, di cui diventa “schiavo” per tutte le dinamiche sin qui descritte, che vanno ben oltre l’attrazione sessuale che finisce per essere, anche per Dorigo, del tutto secondaria: ”Aveva sentito raccontare spesso di uomini, per lo più avanti nell’età, che diventano schiavi di una donna perché solo questa donna sapeva procurargli il piacere e le altre no. Una specie di stregoneria sessuale…Purtroppo ha capito che il suo caso è completamente diverso e di gran lunga più grave…No. Del possesso fisico ad Antonio, relativamente, importava ben poco. Se per esempio una malattia l’avesse costretta a non fare più l’amore, in fondo lui ne sarebbe stato felice.”

In realtà Dorigo è attratto da Laide proprio per quella sua vitalità intensa ma anche oscura, ricca e misteriosa, che fa di Laide una fonte di vita e, al tempo stesso, un’ entità perturbante non priva di una sua purezza: “Lui l’amava per se stessa, per quello che rappresentava di femmina, di capriccio, di giovinezza, di genuinità popolana, di malizia, di inverecondia, di sfrontatezza, di libertà, di mistero. Era il simbolo di un mondo…che fermentava di insaziabile vita…Era l’ignoto, l’avventura, il fiore dell’antica città spuntato nel cortile di una vecchia casa malfamata…E benché molti ci avessero camminato sopra, era ancora fresco, gentile e profumato…Non era una infatuazione carnale, era una stregoneria più profonda, come se un nuovo destino, a cui non avesse mai pensato, chiamasse lui, Antonio, trascinandolo progressivamente, con violenza irresistibile, verso un domani ignoto e tenebroso ”; “…in quella svergognata e puntigliosa ragazzina una bellezza risplendeva ch’egli non riusciva a definire per cui era diversa da tutte le altre ragazze come lei…Le altre al paragone erano morte.”

E sempre di più Dorigo sarà trascinato e si trascinerà in quella dinamica attrazione/distruzione, succube di quella continua attesa dei momenti in cui vedere e stare con Laide. E così mentre il tempo lineare e reale scorre e avanza inesorabile, il tempo di Dorigo si avvita su se stesso, come intorno ad una spirale alla quale si avvolge sempre uguale. Un tempo fatto di abietto servilismo, di sofferenze, di sorde gelosie, di fantasie tormentate e tormentanti, di contorsioni mentali, di impotenza e scoraggiamento per quell’ irraggiungibilità di Laide: “Come era vera, come era genuina, come era bella. Lui non l’avrebbe mai raggiunta”

Ma è proprio quell’irraggiungibilità di Laide che alimenta l’attrazione di Dorigo e reitera il suo desiderio. E’ quella infinita attesa che Laide diventi sua che riporta sistematicamente Dorigo da Laide, anche quando, esasperato, tenta di troncare. Ma Laide irraggiungibile com’è non farà che produrre e generare nient’altro che attesa. Quell’attesa che è nello stillicidio delle innumerevoli attese in cui Dorigo si consuma, snervandosi e sfibrandosi finché Laide non appare. Quell’attesa che come un moto incessante si manifesta nel testo a scandire varie forme e momenti del suo comparire, fino a diventare l’eco di qualcosa più grande e profondo: “Che interesse avrebbe una scogliera, una foresta, un rudere se non vi fosse implicita un’attesa”.

E questa accezione dell’attesa – che ci dice che in tutto ciò che ci fa trasalire è implicita l’attesa di penetrarne il mistero – prelude all’apparire del suo significato decisivo: l’attesa di un assoluto che diventerebbe liberatorio: “E attesa di che se non di lei, della creatura che ci potrebbe fare felici”. L’irraggiungibilità di Laide è perciò l’irraggiungibilità di quell’assoluto, di quella felicità destinata a restare inafferrabile, così come il mistero è destinato a restare impenetrabile. L’attesa in cui si dibatte Dorigo quindi non fa che riempire un vuoto, dando a quel vuoto un suo senso, ma dove è proprio l’eros ad essere assente e l’assenza della realizzazione sessuale non fa che rendere manifesta l’assenza dell’amore e con esso della felicità.

Ma questa evidenza dell’attesa come tema portante di “Un amore” evoca, inevitabilmente, “Il deserto dei Tartari” che si svolge tutto sul motivo dell’attesa. E non solo perché entrambi i romanzi si appoggiano su questo motivo ma perché lo fanno in modo analogo, reiterando quel motivo con modalità che procrastinano fino alla fine l’oggetto dell’attesa: “”Un amore” e “Il deserto” sono anzitutto entrambi la storia di un’attesa: il tenente Drogo attende che dal fondo degli spiazzi brulli avanzi il nemico…l’architetto Antonio Dorigo attende che Laide si trasformi o che egli stesso subisca un mutamento” (Giuliano Gramigna – “Prefazione” in Dino Buzzati – “Romanzi e racconti” – I Meridiani Mondadori – 1975 – p. XXXIII)

A differenza perciò di quanto si potrebbe pensare “Un amore” non è l’esito di un percorso che ha allontanato Buzzati dalla sua originaria ispirazione. Al contrario è una rivisitazione di quell’ispirazione che rivela come, a distanza di anni, sia rimasta intatta l’unità dei temi della sua opera, avvertendosi, caso mai, una difformità tra i due romanzi a livello della forma resa, in “Un amore”, funzionale all’oggetto e al clima narrativo: “ … se nella forma “Un amore” si differenzia alquanto dalle altre opere di Buzzati essendovi una sintassi caratterizzata da periodi molto lunghi e poveri o privi di punteggiatura, funzionale a caotiche sequenze di monologo interiore che tendono ad evidenziare le contorsioni mentali di Dorigo e i vissuti irrazionali a cui il clima di sospetto e di menzogna suscitatogli da Laide lo conducono, ben diverso è il discorso per quanto riguarda i contenuti di “Un amore” rispetto agli altri libri di Buzzati e in particolare rispetto a “Il deserto dei Tartari.”” (Nella Giannetto – “Il sudario delle caligini. Significati e fortune dell’opera buzzatiana” – Olschki Editore – 1996 – p. 173)

Ma quell’attesa che si protrae imperterrita, resta, per Dorigo, fonte di angoscia per l’incertezza continua e totale in cui egli vive, data l’assenza di punti di riferimento che Laide gli dà e che egli non trova in se stesso. E tuttavia quell’angoscia si rivela esistenzialmente potente dando a Dorigo quell’impulso ad andare avanti. E così se per l’irraggiungibilità di Laide la vita gli sfugge, rincorrendo Laide egli vive una sua tensione vitale, come un miraggio che mai si afferra eppure si è comunque spinti a inseguire e raggiungere. Perché Laide resta per Dorigo la proiezione di una fantasia, come ne percepisse una sua segreta essenza, inafferrabile ma, nondimeno, enigmaticamente presente, come una sfinge, sfuggente, ma che si cerca in tutti i modi di penetrare. E tanto più Laide è realisticamente descritta e indagata tanto più si rivela incomprensibile.

Ma in questo si avverte pienamente ciò che costituisce per Buzzati il senso stesso del vivere e dello scrivere, l’essenza della sua poetica: “In lui si muovono e si giustappongono, più che comporsi, la tendenza alla chiarezza del reale e il movimento verso la sua oscurità, il profilo delle cose e l’ombra che si allunga dietro di esse, la semplice presenza, il semplice suono e il vuoto del silenzio, l’inquietudine dell’eco…Il Buzzati scrittore non tanto dubita della realtà, che anzi ascolta ed interroga; la sente immersa in una diversa e più profonda realtà o almeno retta, governata da leggi e forze superiori, intravedibili, ma incomprensibili.” (Alvaro Biondi – “Il tempo e l’evento. Dino Buzzati e l’ “Italia magica”” – Bulzoni Editore – 2010 – p. 131)

E anche la città, cioè Milano, ha in “Un amore” questo duplice volto, dove alla frenesia e al movimento della realtà esteriore fa riscontro una realtà interiore cupa e misteriosa, equivoca e tetra. E Laide ne è l’incarnazione ricomprendendo in sé quella doppia natura che è anche la sua natura: “In lei, Laide, viveva meravigliosamente la città, dura, decisa, presuntuosa, sfacciata, orgogliosa, insolente. Nella degradazione degli animi e delle cose, fra suoni e luci equivoci, all’ombra tetra dei condomini, fra le muraglie di cemento e di gesso, nella frenetica desolazione”. La città diventa quindi un simbolo, una metafora di una condizione estraniante ed atomizzata. Descritta come uno “sterminio di formiche frenetiche” in quanto intrico di esistenze e di attività ma che per il singolo si rivela vuota: anch’essa, come quello dei “Tartari”, un deserto: “[La città] infatti come realtà d’uomini non esiste; esiste solo come caos dilatato di presenze umane ridotte a meccanismi” (A. Biondi – cit. p.114)

Fino a diventare luogo labirintico e claustrofobico nella descrizione di quel coacervo di vicoli e meandri che, ignoti e dimenticati, sembrano esprimere, nella loro irrealtà, un’ anima nera e segreta: ”In corso Garibaldi durava ancora ostinata…un’isola ancora intatta. E fra il numero 72 e il 74 c’era un passaggio sormontato da un arco, una specie di porta che immetteva in uno stretto e breve vicolo. C’era anzi una targa in pietra in cui era scritto: Vicolo del Fossetto. E’ così angusto l’ingresso della minuscola strada che la maggioranza dei passanti non se n’accorge nemmeno. Ma, dopo otto nove metri, il vicolo si allarga in una specie di piazzetta contornata da edifici decrepiti. E’ un angolo dimenticato, un labirinto di viuzze, anditi, sottopassaggi, piazzuole, scale e scalette dove si annida ancora una densa vita. Lo chiamano. chissà perché, la Storta”.

E come la città è fatta di meandri anche Dorigo si attorciglia sempre di più nei suoi meandri interiori, alla disperata ricerca di una salvezza: “…vorrebbe raggiungere la riva ma ha paura perché se raggiungesse la riva il fiume non lo trascinerebbe più e nel fiume, poco più avanti, fugge la Laide”. Ma perché questa paura di fermarsi e uscire definitivamente da tutto questo? Perché questa paura di raggiungere la riva e non seguire più il fiume e la Laide che pure dovrebbe essere per lui la salvezza?Perché se non c’è più niente da aspettare, se non c’è più il fiume da seguire, c’è solo la morte, ed è questa la grande paura.

Attendere Laide o che qualcosa con Laide succeda significa comunque vivere, mentre non avere più niente da attendere e da attendersi è la fine di tutto, è solo il vuoto e quindi la morte. Ed è questa la metafora e il senso profondo di “Un amore”. L’attesa, pur con tutte le sue angosce, è il movente di Dorigo per allontanare ed esorcizzare la morte. Raggiungere Laide e quindi la felicità è impossibile, ma perdere Laide toglie ogni speranza e con essa ogni impulso vitale come egli stesso riconosce allorquando se ne allontana tentando di “lasciarla”: “…c’era la speranza e le stesse lotte quotidiane, le attese i palpiti le telefonate riempivano l’esistenza era una lotta insomma una manifestazione di energia e di vita adesso non c’è più niente”. Procrastinare l’attesa significa quindi sfuggire a questo scacco. Perché per Buzzati la vita stessa è una lunga attesa, alla fine della quale vi è inesorabile la morte, ma senza quell’attesa non è dato vivere. E cercare di raggiungere ciò che ci diamo come oggetto della nostra attesa è l’aspirazione che dà a quell’attesa senso, pur nella consapevolezza che quell’aspirazione non è assolutamente certo che sarà raggiunta o che sia raggiungibile.

Né Giovanni Drogo, né Antonio Dorigo raggiungeranno ciò che essi hanno tanto lungamente atteso. Eppure, per entrambi, pur nell’assenza di contenuti evolutivi della loro attesa, pur nel tempo immobile del suo svolgersi, quell’attesa li ha protesi verso il futuro, verso un senso che in assenza di essa sarebbe stato preda del vuoto. Ma questa tensione verso il futuro, questa attesa del futuro è in Buzzati la grande metafora di quello che è il senso ultimo del vivere e dell’ esistere: “Pur partendo da situazioni diverse tutt’e due i personaggi (Drogo e Dorigo), nella vicenda dei rispettivi romanzi, vivono protesi verso il futuro. Le metafore narrative buzzatiane sono una continua domanda sul senso di questa costante tensione umana verso l’avvenire, sul significato di questa “esperienza dell’avvenire”…L’ intensità metaforica della narrativa buzzatiana, il suo valore di inchiesta esistenziale derivano appunto dal fatto che essa continuamente si interroga, tra angoscia e speranza, sul significato della irrinunciabile “aspettazione” nella quale viviamo.” (A. Biondi – cit. p.116)

Così come ne “Il deserto” non sono i Tartari il vero evento ma la morte alla quale il tenete Drogo andrà incontro non appena lasciata la fortezza Bastiani, cioè quando la sua attesa è finita, così in “Un amore” non sarà Laide l’evento ma sarà l’apparizione della morte, del simbolo della morte impresso in quella nera torre che si affaccia come una visione di fronte a Dorigo quando ormai la sua di attesa, quella di Laide, è anch’essa finita: “Nella notte si guarda intorno, Dio Dio cos’è quella torre grande e nera che sovrasta? …Della terribile torre…si era completamente dimenticato, la velocità il precipizio gli avevano fatto dimenticare l’esistenza della grande torre inesorabile nera…Adesso era lì di nuovo si ergeva terribile e misteriosa come sempre, anzi sembrava alquanto più grande e più vicina. Si l’amore gli aveva fatto completamente dimenticare che esisteva la morte. Per quasi due anni non ci aveva pensato neppure una volta, sembrava una favola…Tanta era la forza dell’amore. E adesso all’improvviso gli era ricomparsa dinanzi, dominava lui la casa il quartiere la città il mondo con la sua ombra e avanzava lentamente”

Quella funesta apparizione della torre segnerà la fine della narrazione ma anche la fine dei tormenti di Dorigo. Quel vortice di passione che lo aveva tenuto prigioniero si è sedato ed è svanito lasciandolo adesso solo di fronte a se stesso e a quel suo destino. Ma è stata ancora una volta Laide a determinare il destino di Dorigo. Il suo distacco da Laide, la sua fuoriuscita da quel meccanismo perverso, la fine della sua attesa saranno infatti la conseguenza del distacco e della fuoriuscita di Laide che, diversamente da Dorigo, trova un suo riscatto, una sua salvazione e si dà a sua volta una sua attesa nel segno della vita.

Laide risale dal fondo di quelle basse passioni di cui è stata partecipe e ritrova quel suo fondo di purezza che le appartiene e che le sopravvive, avendo scoperto di essere incinta e decidendo di vivere quella sua maternità: “E’ la sua ora, senza che lei lo sappia è venuta per Laide la grande ora della vita”. Come inesorabile avanza la morte, altrettanto inarrestabile pulsa la vita, in una circolarità non più involutiva ma dettata da ciò che vi è di più assoluto: il continuo alternarsi di vita e morte. Se in Antonio Dorigo il ripresentarsi dell’idea della morte segnerà quindi la fine della sua attesa e, con essa, della sua vita, Laide si troverà invece, nel pieno della sua attesa, dentro l’inizio di una vita e della vita. E la divaricazione dei destini di Antonio Dorigo e di Laide con tutti i suoi significati, che vanno persino oltre quelli già presenti ne “Il deserto dei Tartari”, rivela quanto ampia e profonda sia l’apertura metafisica di Buzzati nell’interrogarsi sul mistero del nostro esistere.

mercoledì 23 giugno 2021

L'AMANTE GIAPPONESE - ISABEL ALLENDE - 27 LUGLIO DA CHICCHI A SANT'APOLLINARE

 Dopo la parentesi dedicata al giallo, con L’amante giapponese Isabel Allende torna a quello che sa raccontare meglio: la storia di una vita e di un amore che supera ogni cosa e ogni definizione.

Alma è una bambina, in fuga dalla guerra ormai alle porte della Polonia. Spaventata, sola, giunge a San Francisco a casa degli zii che non ha mai visto prima. Qui conosce Ichimei Fukuda, il figlio del giardiniere di famiglia. Fra i due bambini si crea subito un legame speciale che, unito all’amicizia con il cugino Nathaniel, permette ad Alma di superare la separazione dalla famiglia e adattarsi alla nuova realtà americana.


Queste due relazioni accompagneranno Alma per tutta la vita, aiutandola a sopravvivere alle avversità e alle interferenze della storia. Alla storia di Alma – e delle famiglie Belasco e Fukuda – si intreccia quella del nipote Seth e di Irina, aiutante degli anziani presso la casa di riposo di cui Alma è ospite e sua assistente personale. Incuriositi dalle foto dello sconosciuto giapponese e dalle misteriose fughe temporanee di Alma, saranno i due ragazzi a spingere la donna a raccontare.

Ne L’amante giapponese, Isabel Allende esplora, come nei due romanzi precedenti, il rapporto fra diverse generazioni. Alma e Irina, pur molto diverse fra loro, sono unite da un legame particolare. Entrambe sono donne complesse, con un carattere indipendente, ma allo stesso tempo con proprie debolezze e insicurezze, costrette a compiere nella loro esistenza scelte difficili.

Alma è decisa, cerca di conservare il più possibile la propria autonomia anche a ottant’anni e difficilmente permette agli altri di avvicinarsi. Con il tempo, tuttavia, Irina le diventa indispensabile, sia nelle faccende quotidiane, sia per mettere ordine nel suo passato. Irina, dal canto suo, ha vissuto nei suoi ventitré anni esperienze orribili e riesce a sopravvivere solo chiudendosi al mondo. È solo grazie agli anziani di Lark House che riesce a lasciarsi alle spalle il passato, a perdonare e a lasciarsi amare.

Lark House, del resto, è un’isoletta ideale dove tutti vorremmo trascorrere la nostra vecchiaia o vedervi invecchiare i nostri cari. Un covo di arzilli vecchietti rivoluzionari che ogni venerdì protestano contro le ingiustizie del mondo, si innamorano e si comportano come se l’età fosse solo un inconveniente.

Il fil rouge del romanzo L’amante giapponese resta la relazione fra Alma Belasco e Ichimei Fukuda: un amore eterno e inevitabile, capace di superare le distanze geografiche e temporali e di riaccendersi a ogni incontro. Un amore che non perde la sua purezza neanche dopo sette decenni.

Si può amare a ogni età, ci ricorda Isabel Allende. Si possono fare scelte stupide per amore, si può cercare di rinunciare all’amore innanzi agli apparenti ostacoli della vita e della storia, ma solo l’amore è in grado di dare un senso all’esistenza e di accompagnarci per sempre.



giovedì 20 maggio 2021

22 GIUGNO 2021 - ELEANOR OLIPHANT STA BENISSIMO

 


Mi chiamo Eleanor Oliphant e sto bene, anzi: benissimo.Non bado agli altri. So che spesso mi fissano, sussurrano, girano la testa quando passo. Forse è perché io dico sempre quello che penso. Ma io sorrido, perché sto bene così. Ho quasi trent’anni e da nove lavoro nello stesso ufficio. In pausa pranzo faccio le parole crociate, la mia passione. Poi torno alla mia scrivania e mi prendo cura di Polly, la mia piantina: lei ha bisogno di me, e io non ho bisogno di nient’altro. Perché da sola sto bene. (…) E se me lo chiedete, infatti, io sto bene. Anzi, benissimo.

lunedì 26 aprile 2021

18 MAGGIO 2021 - L'AFFRONTO DI YASMINA KHADRA


Attraverso una storia avvincente, il cui eroe oscuro è un poliziotto che indaga un atto di violenza sulla propria moglie, Yasmina Khadra ci offre un intenso viaggio letterario e un’inchiesta di grande tensione psicologica in una Tangeri dominata dalla corruzione, dal vizio e dalla violenza.

 

Sarah, bella signora di una famiglia ricca e potente del regno del Marocco, è stata violentata nella sua villa a Tangeri. Quella notte, Driss, il marito, era assente. È un funzionario di polizia di umili origini che ha fatto carriera grazie alla protezione del suocero. Le indagini, secondo un costume consolidato, si avviano in modo inerte; il vicecommissario di turno se la prende con un disgraziato qualunque, preoccupandosi soprattutto di salvaguardare se stesso. Finché Driss non prende in mano il caso e lo porta avanti in modo nevrotico. Circondato dall’invidia, non troppo sotterranea, dei colleghi, spinto da un sentimento diviso tra l’amore e la vendetta d’onore, arriva a lambire gli ambienti più privilegiati.
È sottilmente bravo Yasmina Khadra a unire allo svolgimento incalzante della trama l’approfondimento psicologico di un conflitto importante. Il marito è sincero nel dolore, ma istintivamente sente oltraggiata la propria atavica supremazia proprietaria nei confronti della donna; la moglie avverte il proprio corpo «che ormai è solo carne contaminata», ma rifiuta di soccombere a una cultura che per tradizione la vuole colpevole e che giustifica la ripugnanza del marito. I romanzi di Khadra, da anni tradotti in tutto il mondo, sono polizieschi che mirano a rappresentare una realtà più vasta. Il gioco dei personaggi, la loro inconfondibile caratterizzazione, gli permettono di attraversare, registrandone cause e fenomeni, l’intera stratificazione sociale. Una società claustrofobica, impaurita e diseguale, ma non tanto lontana, in fondo, dalla nostra.

mercoledì 3 febbraio 2021

CARRERE - VITE CHE NON SONO LA MIA - 23 MARZO 2021


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Lo scrittore francese Emmanuel Carrère, in una narrazione in prima persona, ci immerge in quel disastro indescrivibile che è stato il maremoto che ha colpito gran parte del sud-est asiatico e l’Oceano Indiano nel 2004.
Carrère, è in Sri Lanka, con la famiglia, in vacanza. Il rapporto fra lo scrittore e la moglie è in crisi, questo per loro potrebbe essere l’ultimo viaggio assieme poiché hanno deciso di separarsi.
Il 26 dicembre, la tragedia. Arriva una muraglia d’acqua che si infrange sulle coste, uno Tsunami che uccide molti uomini, donne e bambini, e tutto cambia.
Dolore, devastazione, disperazione è tutto ciò che rimane al ritiro dell’onda.
Per una pura coincidenza, né lo scrittore né alcun membro della sua famiglia rimarrà vittima della violenza di quelle onde gigantesche a cui invece hanno assistito fortunatamente al sicuro nel loro albergo di lusso, sulla collina. Hanno scoperto, tuttavia, che il mare, tra le sue vittime, ha portato con sé anche una bambina, Juliette, figlia di una coppia francese con la quale erano diventati amici. Juliette aveva solo quattro anni, e la sua morte lascia nel cuore dei suoi genitori un vuoto indicibile.
Il corpo della bimba non si trova, trascinato chissà dove. I genitori di Juliette iniziano a cercarla. É impensabile per loro accettarne la morte senza aver rivisto almeno il corpo della loro piccola. Helène, la moglie dell’autore, schiacciata da questa disgrazia, decide di aiutare i suoi amici, e si dedica anima e corpo, instancabile, alla ricerca di Juliette attraverso gli ospedali della regione, visitando celle frigorifere, parlando come possibile con i medici, incontrando altri sopravvissuti.
Lo scrittore ricostruisce quei difficili giorni post Tzunami, lo strazio di chi ha perso un famigliare, la disperata ricerca di chi vuole portare a casa almeno un corpo da seppellire e anche la gioia di chi si ritrova inaspettatamente.
Helène e Emmanuel tornano a Parigi, cercano di riannodare le fila delle proprie vite dal punto in cui le avevano lasciate prima di partire, ma una brutta notizia li attende: la sorella di Hélène, si chiama Juliette pure lei, si è riammalata di un tumore che pensava d’aver sconfitto da bambina. Le resta poco tempo da vivere ed affronta il proprio destino con grande coraggio e con una forza che contraddistingue solo una mamma che sa che sta per lasciare le sue tre bambine.
Il dolore come aspetto inevitabile, ineluttabile della vita.
Sofferenze immense quelle descritte dall’autore in questo libro, il dolore di una figlia perduta in un onda mostruosa, ed il dolore di tre bambine che vedranno il cancro portarsi via la madre.
Un libro durissimo, emotivamente impegnativo la cui potenza risiede nella grande capacità dello scrittore di scavare a fondo in quel che non vorremmo mai vivere, in tutto ciò che esattamente coincide con la morte, sia nel suo aspetto più clamoroso (lo Tsunami sulle coste del Pacifico nel 2004), sia in quello più quotidiano, in cui lo spettro della malattia devasta un piccolo mondo, una famiglia, un lavoro, delle amicizie.
“Vite che non sono la mia” perché Carrère vive fortunatamente quasi da spettatore entrambe le tragedie, destini funesti che con molta modestia, empatia ed equilibrio ci racconta.
WRITTEN BY
RadioBullets
Le notizie che non leggerete sui vostri giornali (qualcuna sì, ma non a lungo).